Anche gli animali sanno essere altruisti, ma non sempre
Sono in molti a definirsi altruisti, anche ignorando che cosa il termine indichi con esattezza. Nello specifico, si tratta di abbandonare o porre in secondo piano i propri interessi per agire a beneficio di un altro individuo. Essere altruisti però pone in condizione di svantaggio chi agisce, e in vantaggio chi riceve, in disaccordo con la logica naturale della sopravvivenza. Un esempio banale sono i richiami sonori di pericolo che alcuni uccelli usano per segnalare ai conspecifici la presenza di un predatore nelle vicinanze: chi lancia l’allarme permette agli altri di scappare, ma attira il rischio su di sé.
Che cosa si trova alla base dello spirito di sacrificio? Secondo Hamilton, tutto partirebbe dal legame di sangue tra gli individui coinvolti, e un vero altruismo sarebbe presente solo tra parenti. Nel 1964 propose infatti la teoria della «kin selection»: la probabilità che un individuo aiuti il suo prossimo si realizza nel caso in cui, parlando per parametri, il prodotto di r (relazione di parentela) per B (beneficio del ricevente) sia maggiore di C (costo per l’altruista). In sintesi, solo quando chi riceve il gesto altruista ha un beneficio alto ed è strettamente imparentato con un altro individuo potrà sperare che questo lo aiuti. Il beneficio e il costo di cui si parla riguardano la fitness, ossia la possibilità di lasciare una discendenza, scopo principale di ogni animale in natura.
Si spiega così la necessità di avere un legame di parentela: per trasmettere i propri geni occorre avere figli, oppure, per esempio, che un fratello li abbia, dato che la maggior parte dei geni sarà condivisa. Può sembrare un calcolo molto freddo, ma è così che, per citare un caso, si comporta la ghiandaia blu: le coppie ogni anno fanno nascere dei piccoli, ma questi, raggiunta la maturità, non si riproducono subito se i genitori hanno altri figli, ma aiutano a crescere i fratelli e proteggono il nido mentre la madre cova. Il rischio che qualcuno uccida i pulcini si abbassa se ci sono più adulti a sorvegliarli; l’anno dopo, quando i pulcini saranno cresciuti, i fratelli maggiori cercheranno una compagna e passeranno il fardello ai minori.
Man mano però che la parentela si fa più distante (e la somiglianza genetica allo stesso modo) la spinta ad aiutare si riduce: una ghiandaia aiuta volentieri i genitori, ma sarà già meno propensa ad accudire i figli dei propri fratelli. Si può notare però un limite nella teoria, dato che non prevede atti altruistici fra individui non imparentati. Neppure le api, riconosciute come insetti sociali, vanno contro questa regola: le operaie si sacrificano per la regina, ma essendo lei l’unica ad accoppiarsi, sono tutte sorelle con un’unica madre.
Certo, si potrebbe obiettare che gli animali che vivono in branco collaborino tra loro: i lupi sono tanto «generosi» da portare le prede ai compagni feriti e quindi non in grado di cacciare, ma si tratta di un do ut des. Chi non è in grado o non accetta di collaborare viene espulso dal branco, allontanato e condannato ad arrangiarsi. A questa regola non sfugge nessuno, neppure la coppia alpha (dominante), molto democraticamente. Quando i capi del branco non sono più utili o si indeboliscono, devono allontanarsi, o verranno comunque lasciati indietro. Ritorna perciò anche qui la fredda logica di chi vuole sopravvivere: se non puoi darmi nulla, perché dovrei rimetterci a tuo favore? Di certo non ciò che penserebbe un altruista.
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