Atlete trans, vantaggio biologico e fair play
Negli ultimi anni, l’inclusione delle atlete trans nelle competizioni sportive femminili sulla base della loro identità di genere percepita ha destato non poche polemiche. Diverse atlete hanno protestato contro le modifiche delle regole interne alle federazioni sulla scia dell’attivismo a favore dei diritti trans.
Le nuove linee guida, infatti, consentono alle atlete trans, con o senza certificati medici che dimostrino una effettiva diminuzione dei livelli di testosterone a seconda dei regolamenti interni, di partecipare alle competizioni femminili.
Decisioni prese senza consultare le dirette interessate, le atlete, che si trovano a gareggiare contro avversarie molto più forti e veloci di loro. Impossibili da battere indipendentemente da quanto si allenano. Infatti, nelle competizioni alle quali hanno partecipato, le atlete trans spesso si sono aggiudicate la vittoria.
I casi recenti più polemici
In Australia, Sasha Jane Lowerson, 43enne transgender, ha vinto per la seconda volta il campionato nazionale di surf, la competizione più importante dello stato, quest’anno gareggiando nella sezione femminile. Lowerson, la prima persona trans a competere in un una gara di longboard, aveva infatti già vinto lo stesso campionato nel 2019. Ma nella categoria maschile, perché il suo processo di transizione iniziò due anni dopo.
La sua vittoria non è l’unica ad aver suscitato dubbi sull’inclusione delle atlete trans in base al genere percepito. Alla finale femminile del Red Bull Cornestone Contest 2021, la gara di skateboard più importante degli Stati Uniti, ha trionfato Lilian Gallagher, atleta transgender, vincendo due premi in denaro.
Taylor Silverman, arrivata seconda, ha lamentato sui social e con gli organizzatori del contest, di essere stata deprivata del primo premio, così come alle sue colleghe sono stati sottratti il secondo e il terzo. Considerando il vantaggio fisico di cui beneficia Gallagher per il fatto di avere un corpo maschile, infatti, la gara non si è svolta in condizioni di uguaglianza.
Secondo Silverman, skater 27enne, la partecipazione di Gallagher: «ha portato via – alle skater biologicamente femmine – un’opportunità che era stata pensata per permettere alle donne di qualificarsi e vincere dei soldi».
Una questione di fair play
La differenze nell’apparato muscolare-scheletrico tra un corpo di sesso maschile e un corpo di sesso femminile, pongono un problema di fair play.
Chi si schiera a favore della partecipazione agli sport sulla base dell’identità di genere auto percepita, considerata un diritto acquisito delle persone trans, sostiene che il vantaggio biologico connesso al fatto di essere nati con un corpo maschile sia sensibilmente ridotto dalle terapie ormonali e, di conseguenza, non rappresenti un problema.
Secondo due ricercatori britannici, tuttavia, «non è stato valutato se la soppressione dei livelli di testosterone al di sotto del 10 nmol/L per almeno 12 mesi prima e durante la competizione rimuova o meno il vantaggio in termini di prestazioni maschili». Dai risultati del loro studio, infatti, è emerso che «i cambiamenti nella massa muscolare e nella forza fisica delle donne transgender» dopo 12 mesi di trattamento ormonale, risultano «modesti», ammontando a circa il 5% in meno.
Una perdita minima in confronto a un «divario tra le prestazioni sportive di maschi e femmine – a favore dei primi – che diventa significativo durante la pubertà e spesso ammonta al 10-50% a seconda dello sport».
Laddove sono stati posti dei limiti all’inclusione delle atlete trans negli sport, gli Stati o le federazioni responsabili sono stati accusati di discriminazione e transfobia. Nell’ambito giuridico, si considera discriminatoria: «una differenza di trattamento tra soggetti (persone fisiche e/o giuridiche) non giustificata da ragioni oggettive e ragionevoli che mira a provocare l’esclusione sociale del soggetto vittima del comportamento discriminatorio».
Se alla base c’è una motivazione oggettiva, quindi, il comportamento non è discriminatorio.
La battaglia delle donne per salvare gli sport femminili
Uno dei valori fondamentali dello sport è il fair play. Un quadro etico di riferimento che stabilisce dei principi generali ai quali ci si dovrebbe attenere in ogni disciplina sportiva. Nei principi fondamentali, sono comprese la competizione leale, fair competition, e la parità di condizioni, equality.
Per parità di condizioni si intende che «competere ad armi pari è essenziale nello sport. In caso contrario, la performance non può essere valutata in maniera adeguata».
Il vantaggio biologico delle atlete trans è stato riconosciuto da un’indagine dello Sports Council Equality Group (SCEG), un centro studi britannico che si occupa di promuovere l’uguaglianza nello sport.
Questo è il motivo per il quale sono nate diverse associazioni che si oppongono alla loro partecipazione. Le organizzazioni principali che portano avanti questa battaglia sono due: Save Women’s Sports e Fair Play for Women.
Entrambe hanno l’obiettivo di sensibilizzare la società sull’impatto dell’inclusione delle atlete trans negli sport femminili. In ogni disciplina, infatti, queste stanno sbaragliando le avversarie.
Attualmente, sarebbero circa 77 le atlete trans che partecipano nelle competizioni sportive femminili, in varie discipline.
Una nuova categoria per gli atleti transgender
Per accogliere le istanze delle atlete senza escludere le persone transgender dalla possibilità di partecipare negli sport, è stato proposto d’istituire una nuova divisione. Essa permetterebbe che gli atleti trans (donne biologiche) che le atlete trans (uomini biologici) possano competere, a parità di condizioni, nelle rispettive categorie.
Un compromesso che, qualora venisse adottato, rispetterebbe l’opinione della maggioranza dei cittadini americani. I quali, secondo un sondaggio dello scorso anno, sarebbero contrari alla partecipazione sportiva degli atleti trans nelle categorie che corrispondono al loro genere percepito.