La balena che muore genera un ecosistema di vita
Dopo la recente vicenda del «blue whale», il gioco mortale di origine russa, l’immagine della balena ha acquisito un’accezione negativa, da tranquillo animale marino a icona del suicidio. Il nome del gioco deriva dal fatto che spesso le balene restino spiaggiate senza ragione apparente, quasi fosse un gesto volontario. Eppure la morte di una balena può rivelarsi al contrario un mezzo per generare la vita, nel caso in cui il cetaceo muoia depositandosi sul fondo dell’oceano.
Nessuna resurrezione, intendiamoci; si tratta invece di un alto grado di efficienza della catena alimentare oceanica. Una volta che il corpo del cetaceo arriva sul fondo (evento definito «caduta di balena»), diventa una risorsa per svariate specie di organismi. Inizialmente a sfruttare la carne della carcassa sono squali o predatori minori, in un periodo relativamente breve, cui seguono gli organismi cosiddetti «spazzini» che rimuovono dalle ossa i residui organici (tra cui stelle marine, e missine, piccoli vertebrati col corpo allungato).
Fin qui però, nulla varia rispetto a qualsiasi altro animale: il «miracolo» avviene quando della balena rimangono solo le ossa. Esistono infatti dei particolari batteri che vivono nell’oceano in grado di metabolizzare i grassi contenuti nelle ossa dell’animale, che ne sono particolarmente ricche. Questi batteri vivono ospitati all’interno di particolari vermi del fondo (osedax), i quali non si alimentano da soli ma sfruttano l’attività alimentare dei batteri per assorbire il nutrimento; i batteri infatti degradando le ossa producono gli acidi grassi di cui si nutrono i vermi. Una volta che la carcassa resta abbandonata inizia quindi la proliferazione degli osedax, che a loro volta diventano prede per altri organismi, molluschi o lumache di mare, e cosi via, di predatore in preda.
Si forma quindi una catena alimentare che ha come risorsa di base le ossa della balena, fino a dare vita a un intero microcosmo che orbita attorno alla «tomba». Il fondale oceanico nelle zone più profonde appare completamente disabitato, come un deserto battuto dal sole, dove le uniche «oasi» sono rappresentate da queste comunità, nate per caso ma di durata tutt’altro che breve. Il tempo minimo che i batteri impiegheranno per sfruttare l’intero scheletro si aggira sul centinaio d’anni, sufficiente perché nelle vicinanze possa finire un’altra balena sfortunata, facendo ripetere il ciclo.
Curiosamente, esiste anche in letteratura più di un’opera in cui qualche sfortunato viandante inghiottito da una balena trovasse altre forme di vita al suo interno. Il caso meno conosciuto risale all’antica Grecia, con uno dei primi romanzi esistenti intitolato ironicamente La storia vera (Luciano di Samosata). La narrazione in prima persona (autentica, naturalmente!) espone varie peripezie durante un viaggio in barca oltre il Mediterraneo, sullo stile dell’Odissea, ma si conclude con la nave che viene ingoiata da una balena gigantesca. Nello stomaco i marinai trovano due isole, abitate da selvaggi che vivono all’interno dell’animale da tempo immemore. Seppure esagerato, il concetto alla base era corretto: una balena può dare vita a un ecosistema autosufficiente, dalla morte del singolo la vita di molti.
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