Bioetica e donazioni: intervista a Antonio Da Re
ntonio Da Re è presidente del corso di Laurea in Filosofia dell’università di Padova, dove insegna Storia della Filosofia morale e Bioetica. È membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Ha gentilmente acconsentito a rispondere ad alcune domande riguardanti i temi del libro Il dono nelle donazioni, che abbiamo recensito qualche settimana fa.
La bioetica è indispensabile per porre un freno alle applicazioni della scienza che potrebbero minacciare il rispetto della vita. Ci sono casi in cui può essere essa stessa una minaccia per il progresso scientifico?
Non so se presentarla come un freno per un verso e come una minaccia per un altro renda effettivamente ragione di ciò che è stata ed è la bioetica. Si tratta infatti di una disciplina del tutto atipica, considerata la sua natura interdisciplinare, luogo d’incrocio quindi di saperi e competenze di carattere biologico, medico, etico, deontologico-professionale, giuridico, ecc.; prima ancora però di qualificarsi come disciplina, la bioetica si è affermata storicamente come una forma di pratica in ambito sanitario. Basti qui pensare al ruolo svolto dai Comitati etici, sia per la sperimentazione che per la pratica clinica, comitati comprendenti figure di professionisti e di esperti con competenze diversificate. Proprio la sperimentazione su soggetti umani ha rappresentato storicamente il primo banco di prova della nascente bioetica. Per decenni si sono compiute sperimentazioni lesive della dignità umana, a volte vere e proprie forme aberranti di sfruttamento dell’uomo.
Potrebbe al riguardo portare qualche esempio?
È scontato menzionare i campi di concentramento nazisti (e non a caso il Codice di Norimberga stabilì in forma ufficiale che nella sperimentazione «the voluntary consent of the human subject is absolutely essential»); ma
si possono menzionare anche gli studi sull’epatite, condotti a partire dal 1956 presso un ospedale di New York, con sperimentazioni che prevedevano di iniettare il virus dell’epatite in un gruppo di bambini, affetti da ritardo mentale, da poco ricoverati, per poter così osservare l’evolversi della malattia; o ricordare gli studi sulla sifilide condotti per quarant’anni su 600 afroamericani in Alabama, non curati anche dopo che si era resa disponibile la penicillina, e ciò per poter meglio osservare, attraverso le autopsie, le conseguenze della malattia sul corpo umano. La pratica e la riflessione bioetica con grande determinazione stabilirono sin dagli anni Settanta dello scorso anno che simili pratiche di sfruttamento erano del tutto inammissibili e da lì cominciò l’individuazione di principi etici e procedure per regolare la sperimentazione su soggetti umani. In questo e in altri casi la bioetica ha rappresentano un freno non tanto alla scienza, ma ad alcune sue applicazioni eticamente scorrette. Può essere che a volte il freno possa essere interpretato come una minaccia. Il discorso ci porterebbe lontano; osservo solo che non tutto ciò che è tecnicamente possibile fare è di per sé giustificato. Insomma, non c’è nulla di scandaloso se a volte decidiamo di fermarci, anche provvisoriamente, in attesa che le nostre conoscenze scientifiche progrediscano e rendano possibili applicazioni rispettose dell’essere umano.
Qual è oggi, a suo parere, l’ambito di ricerca scientifica che rappresenta più di ogni altro un rischio per il rispetto e l’integrità della vita umana?
Più che individuare un preciso ambito di ricerca scientifica, segnalo quella che al momento si presenta come una prassi fortemente lesiva dell’essere umano: mi riferisco al commercio di organi, il che presuppone che gli organi vengano acquistati e venduti o addirittura espropriati con la forza e questo avviene in alcuni contesti di grande povertà e di violenza. Fatte le debite distinzioni, anche la maternità surrogata (il cosiddetto utero in affitto) rientra in una prassi simile di mercificazione del corpo umano (e quindi della persona).
La bioetica solleva domande, individua problemi. Ma può anche dare risposte condivisibili da tutti? Quale ruolo ricoprono i filosofi che si occupano di bioetica, in una società in cui sembra si dia ascolto piuttosto a politici e autorità religiose, che fondano le proprie posizioni su moventi e principi spesso discutibili?
Se un compito possono svolgere i filosofi, è quello di aiutare, per così dire, a decodificare il problema bioetico presente nella concreta situazione, chiarificando i termini della questione, utilizzando in modo rigoroso concetti e termini implicati nell’interpretazione del caso concreto, mostrando i principi etici che vi entrano in gioco e che possono confliggere tra loro. Non c’è dubbio che molte diatribe bioetiche siano il frutto di un pressapochismo, a volte alimentato ad arte per ragioni ideologiche; in tal senso il ruolo della politica dovrebbe essere molto discreto e non prestarsi appunto a tentazioni ideologiche e settarie. Su un altro versante anche le tradizioni religiose (concetto ovviamente diverso da «autorità religiose») possono dare un loro contributo, su un piano molto generale di comprensione del senso della vita, della morte, del dolore, della generazione, ecc.; possono anche fornire un apporto sul piano normativo e applicativo, fermo restando che esse devono ricorrere al linguaggio della ragione pubblica, un linguaggio quindi argomentabile razionalmente e potenzialmente comprensibile da tutti i cittadini, indipendentemente dal loro essere credenti o meno.
Al momento, il criterio neurologico per l’accertamento della morte esclude il cervello dagli organi che è possibile donare. Ma se venisse adottato un criterio differente e ci fossero le conoscenze scientifiche per effettuare con successo un trapianto di cervello, Lei ritiene che sarebbe eticamente accettabile?
Cominciamo col dire che al momento una tale ipotesi rientra più nell’ambito della fantascienza. Ciò non esclude che possiamo prendere in considerazione un simile esperimento mentale, ed è quello che fa uno dei grandi maestri della bioetica, Hans Jonas, concludendo che si tratta di un’ipotesi eticamente inaccettabile. E io concordo con lui.
Crede che l’impossibilità di conoscere o di essere conosciuto dal beneficiario di una donazione sia un fattore determinante nella scelta di diventare donatore di organi?
Secondo la legge 91/1999 sul trapianto di organi «il donatore ha il diritto e il dovere di mantenere l’anonimato, sia nei confronti del ricevente sia nei confronti di soggetti terzi». Certamente entrano qui in campo motivazioni di carattere precauzionale, in primis l’intento di tutelare le parti implicate in un’esperienza, quella della donazione ex vivo, con inevitabili e rilevanti conseguenze sulla vita delle persone (basti pensare alle ricadute di carattere psicologico); ma l’anonimato può anche essere letto come uno strumento per esaltare la gratuità della donazione.
Il dono totalmente disinteressato è paradossale, poiché dovrebbe essere inconsapevole: altrimenti vi sarà sempre una gratificazione, anche se intima e personale, che ne compromette la gratuità. Ma una simile etica, che mette al primo posto l’altruismo e condanna l’interesse personale, può davvero riuscire a fondare i rapporti interpersonali? O è più efficace un’etica della «regola aurea» che trasformi il nostro inevitabile egoismo in un vantaggio per tutti?
È vero che a rigore nella donazione d’organi, in forza dell’anonimato, il donatore non verrà gratificato dalla riconoscenza del destinatario della donazione. Tuttavia, vi possono essere gratificazioni di altro genere, e non è detto che ciò debba essere guardato con sospetto. Avrei qui bisogno di molto spazio per chiarire alcuni passaggi teorici, nei quali, tra l’altro, l’interpretazione morale inevitabilmente s’incrocia con considerazioni di natura psicologica. Personalmente nutro un certo scetticismo nei riguardi di quelle concezioni morali che introducono una divaricazione netta tra la ricerca del bene degli altri e la ricerca del proprio bene (preferisco parlare di bene e non di vantaggio o interesse); è come se la ricerca del bene altrui dovesse sempre e necessariamente passare attraverso la negazione e la mortificazione di sé. Mi sembra una visione negativa, poco giustificabile anche sul piano psicologico, oltre che morale. In effetti la Regola d’Oro, specie nella sua formulazione positiva (Fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te) mette in luce l’implicazione dei due piani. Detto altrimenti, facendo il verso al comandamento cristiano dell’amore, difficile – anzi, impossibile – che si riesca ad amare gli altri se non si ama se stessi; vale anche l’inverso: non si riesce ad amare se stessi, se non si ama gli altri.