«Black Lives Matter»: le origini di una protesta
(Prima parte, la seconda e ultima parte esce domani)
Comprendere movimenti come «Black Lives Matter» non è immediatamente semplice. Non solo perché è qualcosa che sta accadendo in un altro paese, che ha dunque una storia e una società essenzialmente diverse dalle nostre; ma anche perché riguarda una categoria, le donne e gli uomini di colore, che posseggono un’eredità culturale e politica peculiare e per certi versi intraducibile per un pubblico «bianco».
Diventa dunque necessario, per evitare di fornire letture eccessivamente didascaliche degli avvenimenti, tentare di fare un passo indietro.
La vicenda mediatica di cui stiamo parlando inizia nel 2012, con l’omicidio di Freddy Grey, a Baltimora. Un caso in cui la mano della polizia deve aver calcato un po’ troppo forte, spezzando la schiena al ragazzo.
Baltimora è una città dello stato del Maryland, nel nord-est degli Stati Uniti, sede di un’importante università, e la sua popolazione è composta al 65% di neri. Il contesto è dunque particolarmente emblematico, perché ci porta subito di fronte ad una delle questioni che orbitano attorno al movimento «Black Lives Matter», ovvero la segregazione. Una recente ricerca della Duke University ha mostrato come la divisione degli abitanti delle città americane in quartieri neri, ispanici o di nativi sia sia ancora presente e in alcune zone assolutamente radicalizzata. Sono state realizzate alcune mappe incrociando i dati di residenza dei singoli cittadini e le loro etnie, segnalate da diversi colori. La resa grafica è decisamente di impatto: uno sguardo alle mappe di città come Detroit o Baltimora consente di visualizzare la netta divisione razziale che organizza questi luoghi. L’immagine di seguito è la mappa di Detroit.
Come è facile immaginare, in questi quartieri il tasso di disoccupazione è maggiore rispetto a quelli bianchi e l’unica fonte di guadagno per molti è il traffico e lo spaccio di droga, cosa che in parte spiega anche l’alto numero di persone di colore nelle carceri americane. Le prospettive lavorative sono minime e la criminalità organizzata ha spesso un controllo totale di quanto accade in questi territori.
E così, pochi giorni dopo il fatto, le strade di una città frastagliata e pronta ad esplodere si riempiono per chiedere giustizia, non solo per un singolo membro della loro comunità, Freddy Gray, ma per tutti i neri d’America (e del mondo).
Pochi giorni fa, a distanza di poco più di un anno, Alton Sterling a Baton Rouge, Louisiana, e Philando Castile a St. Anthony, Minnesota, vengono uccisi, ancora una volta, da una mano in divisa. Si parla tanto, a giusto titolo, dell’uso delle armi, così facili da ottenere in un paese come l’America, anche in seguito a uno dei più sanguinosi attentati della storia americana, il massacro omofobo di Orlando. Si parla altrettanto giustamente degli abusi di potere della polizia. Chi ha un minimo di visibilità la usa per dare eco alle proteste. Si diffondono gli hashtag, i salotti televisivi.
In altri casi, invece, si mettono in moto quei meccanismi che sono buoni, nel migliore dei casi, solo ad annichilire ogni occasione di dibattito attorno a ciò che conta veramente, nel peggiore a giustificare una repressione spesso sproporzionata rispetto ai fatti. Uno dei più gettonati è innescare la rituale discussione sulla violenza dei manifestanti. Si arriva a chiedere alla madre di Philando Castile cosa ne pensi del killer di Dallas (per la cronaca, la povera donna ha detto che non dormiva da due giorni e non ha mai acceso la televisione, e dunque non era informata su quanto fosse successo a Dallas). Tralasciando il fatto che la grande parte delle manifestazioni si è svolta in modo pacifico, è salutare ricordare esistano dei contenuti effettivi in queste proteste, vanno ben oltre la fascinazione per la piazza ribelle e sono articolati a tal punto che ormai si può parlare di un vero e proprio movimento politico. Credo si possa parlare di un caso molto interessante di «intersezione delle lotte», dove dal nodo centrale della questione razziale si dipanano tutta un’altra una serie di fili: il clamoroso fallimento della war on drugs, i diritti dei lavoratori e dei disoccupati, la questione carceraria.
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