Non è una capitale per mamme
La Madia no, la Meloni sì. Così si può sintetizzare il pensiero del leader leghista Matteo Salvini sul binomio maternità-politica. Giorgia Meloni, in dolce attesa da pochi mesi, si candida a sindaco di Roma nonostante i cori (prime voci Silvio Berlusconi e il suo nuovo «delfino» Guido Bertolaso, più simile ad altri pesci a dir la verità) che urlano alla blasfemia: una mamma non può diventare sindaco. Appoggiare la leader di Fratelli d’Italia, nonché in parte Matteo Salvini suo alleato, è uno sforzo immane per chi scrive, però quest’insulsa quanto pretestuosa querelle va oltre l’aspetto politico per sfociare nell’universo umano e personale, nonché nello sterminato mondo delle idiozie. E non possiamo non stigmatizzare con decisione le idiozie, a prescindere dal politico cui si riferiscono.
Dissuadere a priori una donna dal candidarsi per una carica pubblica in ragione del fatto che, se eletta, partorirà da sindaco è, senza scomodare parole vuote come «misogino» e «maschilista», un’autentica follia. Al di là del fatto che la scelta finale spetta e deve spettare solo agli elettori, resta la pura e semplice verità: l’amministrazione, soprattutto di una città come Roma, non è solo il sindaco. La parte del leone la fa il team di cui il primo cittadino sceglie di avvalersi.
«Un ministro come fa a fare la mamma?» si chiedeva tempo fa Matteo Salvini, riferendosi alla gravidanza di Marianna Madia; solo gli stupidi non cambiano idea e un’aquila come il leader del Carroccio ora, come dicevamo, è schierata senza se e senza ma dalla parte di Giorgia Meloni: «Secondo me la Meloni può fare il sindaco, la Madia non è in grado di fare il ministro». Quindi ha spostato il discriminante dallo stato interessante della candidata all’aspetto più personale, com’è giusto che sia.
È bene rendersi conto che non si tratta assolutamente di misoginia: stiamo pubblicizzando l’ennesima pretestuosa scusa per attaccare gli avversari e far parlare di sé, senza mai entrare nel merito ovviamente; atteggiamento che ormai da troppi anni la politica ci ha abituati a subire. La partita per Roma è così delicata e ambigua che ogni mezzo diventa lecito per raggiungere il proprio fine, qualunque esso sia: da una parte i pentastellati che gridano a un «complotto» attuato per farli vincere e per mostrare che se non sono in grado di amministrare Roma è difficile che abbiano le carte in regola per governare una nazione, dall’altra la destra e la sinistra che continuano a mescolare nel torbido minestrone delle vecchie glorie e dei compromessi in un turbine di candidature che non può che confondere l’elettore. Una partita strana, una campagna elettorale sui generis che rischia di finire in un bel casino, che peserà sulle spalle dei cittadini.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia