Caporalato: quando migranti e italiani vivono e muoiono per la stessa sorte

L’estate è sulla via del tramonto, ma nella terra del sole le cattive pratiche faticano a salutare.
Lhassan Goultaine, Anane Kwase, Mousse Toure, Lahncen Haddouch, Joseph Avuku, Ebere Ujunwa, Baofudi Cammara, Alagie Ceesay, Alasanna Darboe, Eric Kwarteng, Romanus Mbeke, Djoumana Djire, le dodici vittime dell’incidente autostradale tra Ripalta e Lesina dello scorso 6 agosto e, ancora prima di loro, Abdullah Muhamed, accasciatosi per l’ultima volta nelle campagne del Salento, Paola Clemente, deceduta per 27 euro al giorno, Arcangelo De Marco, colto da un fatale infarto, Backy Moses, morta arsa viva e il suo compagno di ghetto, Soumayla Sacko, ucciso da un colpo di fucile per un pezzo di baracca, sono i tristi morti famosi di un sistema criminale avallato dalle leggi del mercato. Sono spesso giovani immigrati magrebini, ghanesi, albanesi, rumeni o semplicemente italiani disperati, vengono reclutati sul ciglio della strada da caporali poco scrupolosi, trainati in massa su furgoni dalla dubbia resistenza agli urti, per poi essere esposti al caldo torrido, ai pesticidi nelle serre, a sessioni di lavoro lunghe dalle 8 alle 12 ore, ad una misera quotidianità nei ghetti. Donne e minori non vengono affatto rifiutati, anzi infoltiscono ancor più brutalmente il numero di sfruttati, poiché assai più resistenti e assai meno retribuiti.

Secondo i più recenti rilevamenti, forniti dal quarto rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (luglio 2018), il territorio nazionale presenta 1 milione di braccianti, nel 2017 ne sono stati registrati 286mila, il 28% del totale, ma a questi si aggiungono centinaia di migliaia di lavoratori in nero, quantificati in più di 400mila, circa il 50% dell’insieme, oltre 220mila sicuramente stranieri, schiavi di una retribuzione assai inferiore a quella prevista dai contratti nazionali. Circa 30mila aziende, pari al 25% del totale, ricorrono all’intermediazione, per un tasso di irregolarità che si attesta intorno al 39,9% e che vale complessivamente 5 miliardi di euro all’anno. Sono le cifre di un infame bilancio che è ancor più bocciato da un’evasione contributiva di quasi 2 miliardi e che non sembra arrestarsi neanche a due anni dalla Legge 199 del 2016, fortemente voluta dall’ex Ministro per le Politiche agricole e forestali Maurizio Martina.
71 sono stati gli arresti avvenuti nel 2017, ma la paga media, che rimane quantificata fra i 20 e i 30 euro al giorno, in gravi casi di sfruttamento può ridursi anche a 1 euro all’ora e, in ogni caso, una minima parte di essa deve esser garantita ai caporali, cui vengono versati 5 euro per arrivare al campo di lavoro, 3 euro per il panino e 1,5 euro per la bottiglietta d’acqua, sebbene non siano del tutto sconosciute condizioni di lavoro dove pessime condizioni igieniche sono accompagnate da assenza di acqua potabile e di adeguati rifornimenti.

La natura del caporalato è sistemica. Nel Bel Paese, infatti, il fenomeno si estende per tutto il suolo nazionale, trovando i suoi picchi in Puglia, Emilia-Romagna, Sicilia, Calabria e Piemonte, ed è tragicamente avvertito in tutta Europa, ma più radicato nelle sue regioni meridionali e orientali, sicché, nel corso dello scorso anno, una proiezione del Report Modern Slavery Index 2017, realizzato dal centro studi britannico Verisk Maplecroft, citava tra i Paesi a più alto rischio proprio Italia, Bulgaria, Cipro, Grecia e Romania e il contesto italiano veniva definito allarmante per l’elevato numero di sbarchi. Il sociologo ed esperto di caporalato e di sfruttamento degli immigranti, Marco Omizzolo, tiene a precisare: «Il problema non sono i migranti, ma un sistema di accoglienza e un mercato del lavoro che sulle sponde settentrionali e orientali del Mediterraneo manifestano grossi limiti. I flussi migratori li mettono solo in evidenza – e poi continua- in un sistema dove domanda e offerta sono così grandi si inseriscono le mafie. Lo fanno in due modi. In alcuni casi reclutano persone direttamente nel Paese di origine e organizzano il trasferimento, in maniera legale o illegale. Altre volte riescono a entrare nei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) meno controllati che, così, diventano luoghi di reclutamento. Le mafie non producono il sistema, dovuto a pecche dell’accoglienza e del mercato del lavoro, ma vi si inseriscono, lo sfruttano. Gli ultimi censimenti parlano di 27 mafie coinvolte in questo business».

A esser sempre più convinta che alla base del fenomeno e della natura sistemica di questo non siano trionfanti solo le agromafie, è Paola Guglielmi, la procuratrice che nel 2015 si occupò della morte di Abdullah e che, per mezzo delle inchieste condotte, ha potuto appurare come i pomodori, raccolti dalle vittime e dai viventi sfruttati sotto caporalato, vengono consegnati ad alcune delle più grandi e celebri aziende italiane di trasformazione del pomodoro in pelati, sughi pronti e polpe. Se le responsabilità penali, ai sensi dell’articolo 603-bis del Codice Penale, rimangono vincolanti unicamente nei confronti dei caporali e dei proprietari terrieri, le responsabilità morali di chi immette tali prodotti sul mercato sono unicamente da imputare, sempre secondo P. Guglielmi, alle grandi multinazionali dell’agroalimentare.