Caro Di Maio, chi crea le guerre che portano profughi?
Il dibattito sulle Ong, esploso in questi giorni, ha catapultato immediatamente il tema immigrazione nell’agenda politica: il dramma degli sbarchi, per un attimo offuscato dalle elezioni francesi, torna a essere arma principale della sfida politica.
Il web infuria contro i «taxi del Mediterraneo»; etichettate in questo modo dal vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, le Ong diventano il nuovo centro mediatico su cui si sposta il problema immigrazione. Taxi. Una parola che da sola taglia, ferisce, distrugge se usata nei confronti di chi salva, di fatto, la vita di altre persone ed evoca nei confronti della traversata, che i migranti compiono, un’idea di agio, tranquillità, lusso.
Sembra che anche l’onorevole Di Maio, a un certo punto, si renda conto di aver esagerato, ma, essendo ormai troppo tardi per ritrattare, preferisce scaricare la responsabilità di aver ideato il soprannome all’agenzia dell’Ue Frontex. Il «così fan tutti» viene però rapidamente smentito dallo stesso rapporto da lui citato: nel documento non è mai presente né il termine taxi e neppure sue allusioni.
Quella semplice parola ribalta il tavolo: scardina il fitto reticolo che costituisce il problema immigrazione. Quella sola parola, pronunciata con leggerezza, difesa con forza, arriva dirompente e cambia tutte le carte in tavola, costruendo una soluzione scontata, rapida, indolore che nel suo manifestarsi scatena la rabbia e l’indignazione di chi è in grado di accoglierla nella sua pienezza, occupando tutto lo spazio del problema che viene così ridotto, minimizzato, svuotato.
Il problema, emerso dalle dichiarazioni del Movimento 5 Stelle nel blog di Beppe Grillo, sarebbe inoltre che le Ong starebbero stringendo rapporti con gli scafisti incentivandone così il lavoro e incrementandone i profitti. Si supponga pure che ciò sia vero: se il dato, che gli arrivi sulle coste libiche siano in esponenziale aumento, fosse imputabile anche al fatto che molti profughi riescano effettivamente a raggiungere l’Europa, a causa delle Ong, ciò non toglierebbe che il motivo fondamentale per cui questi partono è la presenza di conflitti terribili nei paesi dove si trovano.
Il mercato degli scafisti inoltre non riguarda soltanto gli ultimi metri del percorso che i profughi compiono, ma tutta la tratta nel suo complesso. Viene da chiedersi quindi come si dovrebbe ritenere chi lucra e si arricchisce sfruttando i conflitti che portano queste persone a fuggire, se si mettono alla gogna le organizzazioni che le salvano in mezzo al mare.
Cosa più grave ancora sarebbe scoprire che proprio gli Stati nazionali siano i protagonisti di questa vicenda. Gli Stati che, non investendo abbastanza risorse per salvare le persone nelle acque del Mediterraneo, sanciscono di fatto la necessità della presenza delle Ong. Si valuti, per esempio, l’implicazione italiana nelle guerre che obbligano le persone a fuggire, al fine di capire se queste siano per noi fonte di profitto o meno.
Secondo l’agenzia Sipri di Stoccolma, che si occupa di raccogliere e analizzare dati sulle spese militari nel mondo, il 2016 ha segnato un innalzamento molto significativo. In particolare l’Italia registra una spesa di 27,9 miliardi, l’1,7% del Pil, e un aumento del +85,7%, da 7,9 a 14,6 miliardi, dell’export di armi. L’Italia si è inoltre impegnata con la Nato per incrementare ulteriormente la spesa militare portandola al 2,0% del Pil, come confermato dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Ciò che emerge dai dati è non solo che si portano armi in tutti le maggiori guerre in corso, armi usate per bombardare, sparare, uccidere migliaia di esseri umani; ma che non vi è nessun margine discrezionale nella vendita.
Forse proprio la noncuranza, non solo italiana, della politica in questo ambito, che sembra più interessata al profitto che al perseguimento della pace, sta alimentando le guerre e di conseguenza chi da queste fugge.
Giusto sarebbe condannare le Ong nel caso in cui lucrassero sul trasporto dei profughi, ma in che modo si condanna chi quei profughi li crea?
Come il vicepresidente della Camera aggettiverebbe lo Stato italiano, se definisce «taxi» le organizzazioni?
Studente di Ingegneria Informatica presso l’Università di Pisa