Caso Perego: la concorrenza non deve togliere qualità
Sabato 18 marzo, pomeriggio. Su Rai Uno la trasmissione Parliamone sabato, il titolo: «La minaccia arriva dall’Est. Gli uomini preferiscono le straniere». Sottotitolo: «Sono rubamariti o mogli perfette?». Segue un’infografica di cui vi abbiamo già parlato: vi rimandiamo all’articolo per i dettagli.
Sessismo, razzismo e violenza di genere tutti in un solo calderone. Lo sappiamo già. Il problema non è Paola Perego in sé, né la pecoreccia sfilata di ospiti alla trasmissione. Il problema è a monte. Il programma in questione in quello stesso giorno ha avuto un 10,63% di share. Questo vuol dire che 1.281.000 spettatori e spettatrici erano incollati davanti alla tv a vedere quello scempio. Che gli ospiti abbiano preso le distanze o meno non conta. Conta invece che un servizio pubblico, non privato, come la Rai, veicoli messaggi di questo tipo. Non veniamoci poi a raccontare che questo è ciò che vuole il pubblico, cioè la «chiacchiera da bar». Il pubblico televisivo è fruitore passivo di ciò che passa per il palinsesto, e spesso non sa neanche cosa voglia dire assistere a una trasmissione di vera informazione.
La domanda viene spontanea: chi decide allora cosa sia «vera» informazione? Nel nostro caso, a programmare i palinsesti è il Consiglio di Amministrazione della Rai. Dunque, casomai, è il servizio pubblico a doversi caricare di un compito che fino a ora ha svolto solo in parte: impedire la trasmissione di programmi discriminatori e di contro promuovere un prodotto di qualità. Questo è possibile non solo attraverso commissioni di vigilanza ben calibrate, ma soprattutto con un’accurata scelta degli autori televisivi. Sono loro infatti, quale che sia la rete, a decidere, per esempio, quale immagine della donna veicolare. Sono loro a declinare lo spirito di un programma televisivo, di una fiction, di un talk show che vediamo la sera dopo cena.
A fare da discrimine per il successo o meno di un programma sono anche i dati auditel. Che un programma abbia uno share alto o meno non ne cambia però la sostanza. Se è spazzatura, rimane spazzatura. Sul sito della Rai c’è un’ampia sezione dedicata alla trasparenza, ma quello che si trova sono tanti numeri, scadenze e bilanci. Nulla sul diritto degli spettatori a una televisione non offensiva e di qualità. È tendenza comune infatti pensare agli utenti (specialmente di alcune reti) come a un «popolino» stupido, ignorante e influenzabile. Parliamone sabato è la tipica trasmissione di «infotainment», un modello televisivo che coniuga appunto informazione e intrattenimento, derivato dalla necessità di rendere la notizia «spettacolo». Il che può anche essere comprensibile: tutto dipende da come viene sviluppato il programma. La diffusione di questo modello è avvenuta soprattutto sulle reti private come Mediaset. Private, appunto, con cui la Rai non può fare a gara di share, giocando al ribasso per contenuti offensivi e diritti degli utenti e delle utenti, in questo caso delle donne, di non vedersi oggettivizzare ogni volta che si parla di loro in tv. Questo non è un gioco a chi, con l’argomento più trash, acchiappa più ascolti. Non è così che funziona. Se Mediaset può permettersi di veicolare un’immagine discriminatoria delle donne (e su questo ci sarebbe molto da lavorare) altrettanto non può fare una rete pubblica.
Certo trasmissioni ad alto contenuto sessista e razzista non sono infrequenti. Forse però adesso abbiamo un antidoto. Il movimento Non Una Di Meno ha immediatamente lanciato una campagna contro il programma condotto dalla Perego, che alla fine è stato chiuso. In meno di due giorni l’evento Facebook sotto la sede della Rai ha raccolto circa 3000 persone, tra partecipanti e interessate. Non si tratta di trovare un bersaglio, nel caso la conduttrice, e distruggerlo a prescindere. Si tratta di essere intransigenti contro ogni tipo di messaggio discriminatorio, nei confronti di chiunque, a maggior ragione se veicolato da un servizio pubblico. Si tratta di pretendere di più da un mezzo di comunicazione che plasma le menti.