«Il caso Spotlight»: il vero giornalismo al cinema
Un direttore e 5 giornalisti; 250 sacerdoti coinvolti, 17.259 vittime di abusi, un anno di indagini e 30 di insabbiamento. Sono queste le cifre dell’inchiesta da Pulitzer che arriva nei cinema italiani col titolo Il caso Spotlight oggi 18 febbraio.
Spotlight è il nome della sezione investigativa del Boston Globe, il più importante quotidiano della capitale del Massachusetts. La storia ha inizio con l’arrivo in redazione del nuovo direttore responsabile, un certo Martin Baron – interpretato da Liev Schreiber, al limite della immedesimazione totale –, considerato la personificazione più pura del giornalismo e al quale ogni giornalista, o aspirante tale, dovrebbe far riferimento come un «santino della professione». Il suo personaggio, infatti, viene reso come un deus ex machina sin dall’inizio: viene chiamato nel 2001 per risanare il bilancio del giornale e si capisce subito che non sarà il solito mozzatore di teste. È Baron, che precedentemente aveva lavorato al New York Times e al The Miami Herald, a proporre al team Spotlight (nel giorno stesso del proprio insediamento) di indagare su una notizia di cronaca locale riguardante un caso di pedofilia risalente al 1997. In particolare, si riportavano le dichiarazioni di un avvocato, Mitchell Garabedian, secondo cui il cardinale Bernard Law, nonché arcivescovo della diocesi di Boston, sapeva che il reverendo John Geoghan aveva abusato sessualmente dei suoi parrocchiani e non aveva preso nessun provvedimento. Da qui, inizia la narrazione del difficile percorso che i cronisti di Spotlight, Sacha Pfeiffer, Michael Rezendes e Matt Carroll (rispettivamente Rachel McAdams, Mark Ruffalo e Brian d’Arcy James) compiono orchestrati dal caporedattore Walter Robinson (ennesima prova di bravura per il suo interprete Michael Keaton); ne verrà fuori una indagine meticolosa quanto rischiosa, che porterà alla luce una rete di preti pedofili con 249 accuse a carico, nella sola e cattolicissima Boston, e sistematicamente coperti dalla Curia.
Non è facile attribuire un merito specifico a un film così riuscito quando c’è l’imbarazzo della scelta tra la storia (reale), la sceneggiatura (ad opera di Tom McCarthy e Josh Singer), la regia (sempre McCarthy), la fotografia e il cast stellare. Non a caso, ha ricevuto 6 nominations agli Oscar, tra cui come «Migliore Film» e «Migliore Regia«», ed era già stato acclamato alla 72esima edizione del Festival di Venezia nella sezione «Fuori Concorso».
Due sono i motivi fondamentali per cui andare a vedere questo film: il primo è ovviamente legato alla sua funzione didattica, mentre il secondo riguarda la delicata questione della pedofilia nella Chiesa di cui ogni tanto facciamo finta di dimenticarci. Primo, la splendida lezione di giornalismo in salsa americana che ci viene offerta è nettamente superiore a qualsiasi manuale delle istruzioni all’italiana (per chiarire: mi riferisco ai tomi da Scuola di Giornalismo che affollano gli archivi dimenticati e salassano le tasche dei poveri aspiranti). Va riconosciuto che quando si tratta di fare le cose in grande, soprattutto in materia di cinema e giornalismo, gli yankee hanno solo da insegnare (per referenze: Quarto Potere, L’Ultima Minaccia, Tutti gli Uomini del Presidente solo per citarne alcuni). Secondo, il tema degli abusi sessuali da parte di preti, e degli abusi di potere da parte della Chiesa per insabbiare i primi, approda finalmente sul grande schermo e persino la Santa Sede sembra averla presa bene. La Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (istituita nel 2014 da papa Francesco e composta da sacerdoti e vittime) ha infatti recentemente visionato la pellicola. Ad oggi, però, non è pervenuto nessun commento dal Vaticano. Forse anche la Chiesa ha capito dove finiscono le dicerie e inizia la cruda e reale cronaca.
Alessia Melchiorre
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