C’è la prova che gli autoctoni terrestri sopravviverebbero a un viaggio spaziale
Nello studio dell’evoluzione della vita, una delle prime teorie volta a tentare di dare una spiegazione alla presenza di fossili di animali ormai estinti e quindi non più presenti era quella del catastrofismo, elaborata da Cuvier. Lo scienziato, peraltro uno dei fondatori della paleontologia, sosteneva che non ci fossero meccanismi di trasformazione interni agli organismi, ma a determinare la resistenza di alcuni rispetto ad altri fosse semplicemente l’ambiente: un maremoto o un terremoto poteva annientare alcune specie e aprire la strada alla diffusione di altre prima in ombra. Molto semplicistica, ma si era ancora lontani dalle indagini a DNA. Sorge tuttavia spontanea una domanda: quali sono i limiti della vita in quanto tale?
Cuvier, pur escludendo erroneamente le possibilità di mutamento di una specie nel tempo, aveva centrato un punto fondamentale: alcune specie possono sopravvivere in ambienti troppo ostili per altre. Del resto lo si può osservare ovunque anche oggi: i pinguini nuotano in acque gelide dove gli uccelli delle zone temperate morirebbero in breve tempo, i salmoni possono risalire corsi d’acqua dolce dove i pesci oceanici non potrebbero entrare senza subire uno shock idrico, i cactus sopravvivono al disseccamento dove altre piante appassirebbero. Ma quali sono le condizioni più proibitive, dove ancora possiamo osservare esseri viventi?
Inizialmente si pensava fosse necessario ossigeno, ma esistono batteri anaerobi, in grado di svolgere processi metabolici anche in sua assenza (un breve residuo è rimasto persino dentro di noi, con la fermentazione lattica durante l’attività fisica intensa). Si è passati allora a considerare l’acqua un parametro fondamentale, ma i protozoi, forme di vita ancestrali, riescono tramite un fenomeno chiamato incistamento a resistere in condizioni di disidratazione per tempi molto lunghi. Finché un esperimento del 2016 ha reso gli orizzonti quasi sterminati. Si parla del progetto dell’Agenzia Spaziale Italiana, denominato BIOMEX.
La sigla sta per Biology and Mars Experiment e di per sé funzionava in modo molto semplice: esporre organismi estremofili, dunque con habitat estremi, all’ambiente cosmico, senza protezione verso radiazioni o disidratazione. La durata dell’esposizione era fissata a 6 mesi, all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale. Trascorso questo tempo, gli organismi, tra cui cianobatteri, resistenti alle esalazioni sulfuree e alle temperature altissime delle sorgenti termali, erano stati rimessi in coltura ed esaminati per verificare eventuali danni. Il fatto che fossero sopravvissuti, oltre a essere di per sé sbalorditivo, ha messo in luce un aspetto rilevante nella ricerca di vita sugli altri pianeti. Hanno infatti dato prova tangibile del fatto che anche degli autoctoni terrestri potrebbero potenzialmente sopravvivere a un viaggio spaziale.
Laureata in Biologia all’Università di Padova, mi occupo di didattica ambientale al WWF. Attualmente studio per la magistrale.