Charlie Hebdo: la satira non deve avere limiti
Venerdì scorso è stato pubblicato sul sito del Fatto Quotidiano un mio articolo dal titolo provocatorio «Charlie Hebdo, ora ci indigniamo perché i morti sono nostri?», in cui parlavo delle tanto discusse vignette sul terremoto del centro Italia pubblicate dal settimanale satirico francese. Al di là di tutto, il succo del pezzo era chiaro: Charlie Hebdo ha il diritto di pubblicare quanto ritiene giusto pubblicare, e noi abbiamo da una parte il diritto di non comprare il giornale, dall’altra il sacrosanto diritto di criticare le loro scelte editoriali.
A parte chi, più o meno consapevolmente, ha eluso l’interrogativa retorica che costituiva il titolo, mi è stato attribuita l’approvazione verso quella vignetta, approvazione che io non ho mai manifestato. Il discorso è molto più sottile, ma molto più importante, ed esula dalla questione del sisma, sul quale non ho intenzione di discutere, anche se sarebbe ovviamente possibile farlo.
La vignetta, al pari di tutte le altre pubblicate da Charlie Hebdo, è un simbolo di una cosa che noi non conosciamo e che si chiama libertà di espressione, in questo caso declinata in un altro concetto a noi oscuro che risponde al nome di satira. La libertà di espressione non è democratica: non segue i diktat della maggioranza, e neppure quelli della minoranza. È un esercizio dell’individualità: dipende dalla sensibilità dell’autore, dal suo talento, dal suo pensiero. E così la satira.
Permettere a un organo esterno di amministrarla significa porre dei limiti molto labili: solitamente piace la satira su chi disprezziamo e irrita quella che ci riguarda più da vicino. Il punto è che un freno di questo tipo è assurdo. Spetta all’autore di una vignetta come di un articolo o di un pamphlet autoamministrarsi, capire quali sono i limiti che intende dare a se stesso e agire di conseguenza.
Questo era il succo del mio articolo: il mio parere su quella vignetta è del tutto irrilevante e non deve interessare a nessuno. Ma quella vignetta, al pari di tutte le altre, merita di esistere e può farlo solo in un paese veramente libero. Qui non è proprio così: tendiamo ad autocensurarci, anche inconsapevolmente, quando diciamo qualcosa di diverso dal pensiero comune, quando abbiamo paura di essere attaccati, quando qualcuno di potente potrebbe arrabbiarci e querelarci. L’autocensura, come ogni freno alla libertà dell’individuo di esprimersi, non dovrebbe esistere in uno Stato libero, nel quale un vignettista (tanto per rimanere nell’ambito di Charlie Hebdo) dovrebbe pensare «Io non me la sento…», ma avere il diritto di «sentirsela».
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia
Chiaro, argomentato, condivisibile e anche non, ma senza dubbio intelligente!
Sarebbe tutto corretto se la libertà di espressione fosse priva di limiti. In realtà così non è, o meglio non dovrebbe essere. Anche per l’espressione infatti vige la regola che governa qualsiasi libertà: finisce dove ne inizia un’altra. La satira non è esente da giudizi di valore e una schifezza rimane una schifezza anche se la mettiamo in fumetto e la pubblichiamo in un giornale satirico. La satira dovrebbe (seconda la sua moderna accezione) far ridere e far riflettere insieme. La vignetta in questione è invece uno stereotipo, stupidamente banale, e che per di più non fa ridere (quantomeno non la maggioranza delle persone che conosco). Questo sarebbe poca cosa, se non fosse che la gretta ironia (se di ironia si può parlare) fa il suo esercizio sulla tragedia del terremoto. Mi spiace, sarò anche limitato e tenderò ad auto-censurarmi, ma la satira che diventa strumento intangibile, che tutto può dire e tutto può esprimere, non è altro che uno degli innumerevoli volti del platonismo in politica: e cioè il pensiero totalitario. Confondere il liberalismo (che ha creato quelle Libertà di cui si parla) con il libertarianismo (che stimola all’abuso di quelle stesse Libertà e che finirà col distruggerle), è tipico dei giornalisti (o sedicenti tali) contemporanei, specialmente di quelli de Il Fatto (l’attuale direttore per primo: ab uno disce omnis).
Mi permetto di invitarla a rileggere quanto ho scritto e quanto ha commentato lei: manca il nesso logico che dovrebbe legare un articolo al commento all’articolo stesso. È fuori luogo la sua “stilettata” al Fatto Quotidiano ed è altrettanto fuori luogo la sua battuta “tenderò ad auto-censurarmi” perché non si parlava dei lettori bensì degli autori. Il punto comunque non è stato centrato: ho ripetuto più volte che noi abbiamo il diritto di fare quanto ha fatto lei, ossia criticare la vignetta (e, bisogna renderle atto, l’ha criticata in modo argomentato); il succo del discorso riguarda il diritto che si ha di pensare e di pubblicare una vignetta come quella, ovviamente esponendosi alle critiche più feroci. Io, se qualcuno me l’avesse proposta, non so se l’avrei pubblicata.
Il nesso logico è quantomai intuibile visto che il titolo del post è: la satira non deve avere limiti. E quanto poi scritto nell’articolo è l’argomentazione del titolo stesso. Ergo, il mio commento parte proprio da questo: la satira e la libertà di espressione non devono avere limiti? Segue quanto già scritto sopra. Non ci trovo nessuna particolare asperità eziologica. Buona giornata