Chernobyl, la serie: quando la scienza mente per motivi politici
È da poco andata in onda su Sky in prima visione, prodotta da HBO, una serie-evento che ha attaccato al teleschermo un gran numero di spettatori: Chernobyl.
Come si apprende dal titolo, essa è incentrata sul tristemente celeberrimo disastro nucleare avvenuto il 26 aprile 1986 nell’ex Unione Sovietica.
Chi scrive ancora doveva essere data alla luce quella notte di primavera di 33 anni fa, per cui, a parte ristrette nozioni acquisite, poco sapeva di quei tragici fatti. Forse, però, anche chi, in Italia e in Europa, aveva vissuto i fatti direttamente, seppur da lontano, e ha poi seguito i cinque episodi in queste settimane è rimasto colpito come se prima non ne avesse avuto che una conoscenza molto blanda.
La sceneggiatura e la scenografia, minuziose di particolari, altamente verosimili, catapultano nella centrale, a fianco agli addetti che quella notte erano chiamati a effettuare un test di sicurezza precedentemente fallito già due volte. Si è accanto alla loro trepidazione, alle loro esitazioni, alla loro concitazione, in quella sala macchine che pare fuori dal tempo e dallo spazio, con luci artificiali potenti a sopperire la mancanza di finestre.
Si entra in contatto anche con l’esterno, con chi con l’attività di produzione di energia non aveva nulla a che fare, se non abitare nei pressi di quella struttura. Nei confronti di quelle mamme, di quei papà, di quegli anziani, di quei bimbi scaturiscono sentimenti ambivalenti: da una parte, una grande compassione, perché si è consapevoli della disgraziata sorte che li attende: la morte come esito di un’agonia devastante che si presenta nel giro di pochi giorni, oppure mutazioni del DNA che conducono a sviluppare neoplasie nel corso degli anni; dall’altra, si prova impotenza mista a rabbia quando si assiste a tanta ingenuità nei confronti di un pericolo mostruoso: vi fu infatti, chi colse l’esplosione e il conseguente incendio dai colori vivaci, dati dalle radiazioni, come un imperdibile spettacolo da gustarsi all’aperto.
Le scene sono condite da una colonna sonora metallica che cattura e inquieta, enfatizzando e dando una forma percepibile a un’assassina invisibile: la radioattività. Questa, a causa di quell’evento raccapricciante, raggiunse, nella cosiddetta zona di esclusione (da cui gli abitanti vennero evacuati solo 36 ore dopo), dei livelli che i dosimetri utilizzati nelle prime ore non riuscirono neanche a calcolare precisamente, dato che superava la loro portata: una sciagura senza precedenti.
Nella narrazione della vicenda un aspetto caratterizzante è il periodo storico in cui essa si consuma, vale a dire il regime comunista, ormai giunto alle battute finali, ma ancora nettamente pregnante. Balza all’orecchio l’appellativo «compagno» con cui tutti i personaggi si chiamano, anche fra sottoposti e sovraordinati, che però non deve far distrarre dal clima di propaganda, omertà, spionaggio e subordinazione al potere che si impone chiaramente in tutti gli avvenimenti raccontati. Se i cittadini trascorsero un giorno e mezzo esposti a radiazioni mortifere, fuorviati da informazioni falsamente rassicuranti, lo si deve proprio alla volontà politica di oscurare il gravissimo incidente. Questo non solo per non generare un panico facilmente controllabile, ma per non far sfigurare la potenza sovietica, specialmente agli occhi esteri: ricordiamo che era ancora in corso la guerra fredda.
Tuttavia, non sarebbe giusto additare esclusivamente i vertici politici. Essi, senza un entourage di periti nelle più disparate materie, non potrebbero mai amministrare un paese. Nello specifico, in questa catastrofe, giocarono un ruolo fondamentale tecnici e scienziati: ingegneri e fisici nucleari. Essi furono coinvolti a vario titolo: alcuni nelle scellerate operazioni che portarono il reattore a saltare in aria, altri nelle procedure per contenere i danni e appurare ciò che realmente si verificò, marcatamente condizionati da Mosca.
Spicca, senza dubbio, la figura di Valerij Legasov, appartenente alla seconda categoria: studioso brillante e coraggioso, venne incaricato di affiancare il vice presidente dei ministri nella gestione dell’emergenza. Egli si rivelò cruciale perché non si lasciò prevaricare dalla versione ufficiale che tendeva a sminuire i danni: così, pur rischiando in prima persona, riuscì a intervenire nella maniera corretta per far sì che la contaminazione non si propagasse ulteriormente risultando letale per centinaia di milioni di esseri umani. Anche lui, tuttavia, attraversò un momento di debolezza che lo indusse a sottostare agli ordini del regime e a mentire di fronte alla comunità internazionale per non danneggiare l’URSS, salvo poi ritrattare, per il bene della collettività, in un secondo momento.
Da qui, può sorgere un pensiero. Senza la scienza, sarebbe impossibile governare, poiché essa è depositaria del sapere su come tutto, di noi e intorno a noi, funziona. Tuttavia, quando questa è piegata a chi comanda, può rivelarsi mendace e produrre atrocità nei confronti del popolo. Forse è un’utopia, ma abbiamo un gran bisogno di scienziati non dipendenti da nessuno, in grado di dire al mondo tutta la verità, senza subire pressioni e intimidazioni.
Classe 1995, laureata in giurisprudenza.
Il diritto e la politica sono il mio pane quotidiano, la mia croce e delizia.
Vi rassicuro: le frasi fatte solo nelle informazioni biografiche.