Il colore della disperazione
Esiste una cosa chiamata disperazione.
Quando si scrive non bisognerebbe mai usare la parola «cosa». La mia professoressa di italiano al liceo lo diceva sempre e io, da brava, ogni volta cercavo un sinonimo corretto che potesse sostituire quella parola che a quanto sembra non significa niente, allo stesso tempo tutto. Cos’è? Una cosa.
La disperazione è una cosa. Non riesco a chiamarla sentimento, stato d’animo. Sarebbero troppo astratto. Impalpabili. La disperazione e qualcosa di concreto. Reale. Fisico.
Non la vedi, ma noti subito quando una persona ce l’ha addosso.
Io me la immagino. Se fosse un colore sarebbe un marrone, ma non di quelli caldi, cioccolatosi o legnosi. Un marrone freddo, scuro. Ma così scuro da sembrare nero.
Che, però, nero non è.
Il nero è nobile, ha la sua classe.
La disperazione è sporca, sudicia.
Appiccicosa come la pece. Oppure del catrame. Fatto sta che se guardo una persona afflitta dalla disperazione, mi sembra di vedere un leprotto agonizzante stretto nella morsa di un serpente che lo avvinghia. Stringe. Stringe e lentamente lo spezza tutto. Ossicino dopo ossicino. Mentre il cuore galoppa alla rincorsa della sopravvivenza. Guarda intorno con gli occhi fuori dalle orbite, supplicanti aiuto.
Ecco, questa è la disperazione.
Una volta ero in metropolitana, a Milano. La gialla, se non ricordo male.
Stavo tornando a casa, dopo una delle infinite giornate in ospedale. Quell’ospedale che non sembrava un posto di guarigione, almeno non per me. Lo sentivo come un luogo dove la malattia colava dalle pareti ed era del colore della disperazione. Io passavo le ore rannicchiata sulla mia seggiolina impaurita a guardare dalla finestra, sperando che il tempo non fosse abbastanza da far sì che quelle colate appiccicose mi raggiungessero prima dell’ora in cui sarei potuta uscire. Per tornare a casa.
Così attendevo il trenino, quei tre minuti. Poi sarei andata in stazione centrale e, dopo un’ora di treno, sarei arrivata a casa. Infelice. Anzi no, non infelice. Solo vuota.
Però nel velo di apatia, improvvisamente, una donna fece uno squarcio.
Non era giovane, era bionda, non curata. Non saprei dire se fosse bella o meno, il suo viso era totalmente sfigurato… Dalla disperazione. Contorto, deforme.
Gli altri non lo vedevano. Parlava da sola, piangeva.
Con l’anima però io non la vedevo così. Davanti a me c’era una creatura totalmente gocciolante di un viscoso liquido marrone scuro, scuro, quasi nero. La disperazione le appiccicava i capelli alle guance e la smorfia del suo corpo tremante era peggio delle più misere maschere drammatiche.
Si allontanava da tutti, a zig zag, verso la fine del binario, dove proprio non c’era nessuno, se non un muro finale da cui poi sarebbe sbucata la metropolitana.
Ero terrorizzata. Dalla visione, da quello che temevo potesse succedere dopo. Solo chi conosce bene la disperazione, può immaginare cosa porti a fare questa cosa.
Se si fosse gettata? E io. Io. Dovevo fare qualcosa.
Risvegliata dalla mia paralisi la seguivo, stando tra lei e i binari.
Se si fosse buttata, io avrei fatto da freno. Oppure sarei andata con lei.
Nessuno si era accorto?
Non potevo guardarla morire, quella donna.
In quel momento lei era tutto per me.
Non salvare lei dalla disperazione, avrebbe significato che pure io prima o poi avrei perso la sua stessa battaglia.
Ecco il treno. Sta arrivando. Il vento che inizia a soffiare forte per la velocità e mi scioglie i capelli. Avevo paura di perderla di vista. Si continuava a spostare.
Stavo impazzendo.
Poi il treno si fermò. Io la guardai.
Lei non mi vide, non penserà mai che io mi sarei sacrificata per lei. Che io l’avevo visto, il mostro che le torceva i polmoni. Il cuore.
Però lei salì su quel treno e andò via verso un qualcosa di migliore. Mi piace pensarla così.
Che quella donna ora stia sorridendo.
Così so che prima o poi, lo farò pure io.