Come cambia la politica demografica cinese

«Mentre lo raccoglievo dal campo di girasoli, il mio cuore era colmo di sangue nero, denso e viscoso… Che quella creaturina potesse esser fonte di amare sofferenze, era una sensazione che avevo avuto nel momento stesso in cui la raccoglievo nel campo di girasoli… Sbarazzarsene non era giusto, non sbarazzarsene anche».

Con queste parole Mo Yan, scrittore cinese premio Nobel per la letteratura nel 2012, narrava nella sua raccolta di racconti «L’uomo che allevava i gatti» il dramma di un uomo comune che, nella Cina post Mao, trova, nel bel mezzo di un immenso campo di girasoli, uno dei tanti neonati non voluti e abbandonati di quei tempi.

Quelli, per la Cina, sono gli anni della politica del figlio unico che fu introdotta nel 1979, per mezzo dell’allora Presidente Deng Xiaoping, al fine di contenere la crescita demografica della popolazione cinese vietando alle coppie di mettere al mondo più di un figlio.

La Cina di quegli anni infatti aveva conosciuto, con un’unica eccezione tra il ’66 e il ’68, all’inizio della Rivoluzione Culturale, un costante e significativo aumento demografico, soprattutto a partire dal 1973.

Tuttavia, esigenze economiche ed espansive dell’epoca richiedevano una limitazione della natalità all’interno del Paese. Meno figli significava meno pressione sociale e più risorse da distribuire ai singoli cittadini.

In quel periodo, la Commissione Statale per la Pianificazione Familiare svolse una così efficace attività di blocco che, già a metà degli anni ’90, il tasso di fertilità era crollato da 6,5 a 1,3 figli per donna.

Da qualche anno a questa parte, invece, si assiste ad un consistente e rapido cambio di rotta. Già a partire dal 2013, in particolare a livello locale, c’era stata una progressiva abolizione della politica del figlio unico con una graduale riduzione delle sanzioni verso coloro che avevano più di un figlio.

I motivi di questa svolta sono rintracciabili nel crescente invecchiamento della popolazione cinese e nel timore, per il futuro, di una massiccia e considerevole riduzione della forza lavoro che potrebbe portare ad un superamento della Cina da parte di paesi emergenti come l’India.

Va però osservato che tali inversioni di rotta non sono poi così scontate da attuare e tanto meno di facile realizzazione. Quando nel 1980 il Governo cinese si accorse di avere una popolazione di circa un miliardo e ottanta milioni di abitanti e decise quindi di adottare la politica di contenimento delle nascite, dovette però anche scontrarsi con una forte e radicata mentalità cinese legata alla terra e a secolari tradizioni confuciane e culturali.

Nelle zone rurali, i figli, quelli maschi soprattutto, costituivano per le famiglie una grande ricchezza. Questi erano indispensabili per il lavoro nei campi, per la continuazione della discendenza e come supporto ai genitori nella vecchiaia. Inoltre, l’idea della famiglia numerosa era in linea con l’antico pensiero confuciano e con le tesi, di epoca maoista, che vedevano nella grandezza del popolo un simbolo di forza e autonomia.

Per queste e per altre ragioni, la politica del figlio unico richiese per anni un’attenta e mirata azione coercitiva che venne perseguita in svariati modi, spesso non sempre nel rispetto dei diritti umani.

Due figli implicavano una multa di duemila Yuan, tre figli tremila Yuan e così via. Purtroppo, oltre alle politiche di contravvenzione, si adottavano anche metodi quali la sterilizzazione forzata e il meccanismo degli aborti indotti. Per non parlare di tutti quei secondogeniti o terzogeniti di famiglie che ancora oggi vivono in Cina ma che non essendo stati registrati all’anagrafe, per timore delle eventuali ritorsioni dovute alla pianificazione, non risultano da nessuna parte ed è come se non esistessero per lo Stato cinese.

Al contrario, si assiste oggi ad una graduale liberalizzazione delle nascite supportata dal Governo, il quale eroga incentivi alle famiglie desiderose di avere due o più figli.

Sfortunatamente, in base a recenti proiezioni demografiche, pare che questi interventi siano, oltre che modesti, anche tardivi. Si ritiene infatti che nel 2050 un terzo della popolazione in Cina sarà composta da ultrasessantenni. Eppure, con ogni probabilità, l’aspetto più critico da superare sarà quello di scardinare l’impostazione della pianificazione familiare ormai radicata nella mentalità dei cinesi. A questa problematica si aggiungeranno anche gli squilibri generati dall’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione.

Così, le giovani coppie si ritroveranno non solo a mantenere i loro eventuali due o più figli, ma anche a sostenere l’onere dell’assistenza ai loro due genitori e quattro nonni anziani in totale solitudine data la mancanza di fratelli o sorelle.