Come la pandemia ha cambiato la socialità
Il COVID-19 ha conficcato nel cuore della società, che è la convivenza, una freccia avvelenata assai difficile da espungere.
Baby Boomers, Millennials e generazioni X, Y e Alpha, sono tutti cresciuti nell’era della distruzione progressiva delle distanze fisiche, della proliferazione dei viaggi intercontinentali e dei concerti di massa.
Non solo eravamo portati a sprofondare nella folla metropolitana, ma anche a respirare in spazi chiusi e ristretti, dove poche anime, unite dalla parentela, dall’amicizia o dalla medesima professione, condividevano istante per istante, una a fianco all’altra, il ritmo serrato di una giornata programmata. Entrate e uscite, incontri e separazioni, erano i movimenti e le direzioni tipiche di tutte le genti che solcavano lo stesso marciapiede, spesso sfiorandosi e urtandosi, fino a generare fra loro l’armonia o il conflitto, il saluto o il diverbio.
Dopo cento giorni di isolamento e terrore, il calore della stagione estiva è parsa a molti la ghiotta occasione per ripopolare piazze, teatri e discoteche, per creare i ricongiungimenti e l’allegro recupero di un tempo consumato male.
Il rigetto della distanza, tuttavia, non è più sostenibile.
Con il ritorno di una crescita esponenziale dei contagi, che ha raggiunto il record da inizio pandemia, accresce, infatti, la probabilità di maggiori restrizioni e lo spettro di un nuovo blocco della vita sociale spegne definitivamente i precoci entusiasmi. Quello che ci aspetta è un autunno impervio, al termine del quale, come profilato dal virologo Andrea Crisanti, non è affatto assicurato il Natale tradizionale, vivificato da compagnie festanti e tavole ricolme.
Seppur la guerra al morbo ci costringerà a combattere non a squadroni, ma come monadi solitarie, il bisogno impulsivo e irrinunciabile di contatto sociale non potrà essere annullato.
Come l’Uomo della Folla di Edgar Allan Poe, l’uomo che non vuole e non può star solo, nessuno di noi vuol compiere i passi verso casa.
Siamo richiamati dalla voce che viene dalla strada, dai volti che non conosciamo e ai quali vorremmo strappare le maschere coprenti.
Come tornerebbe a tuonare Aristotele, l’uomo sociale, anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni, mai potrebbe scegliere di vivere senza amici.
Il sommo bene, la socialità, viene consumato in comunità. Esso, infatti, consiste nelle relazioni che tra esseri umani siamo in grado di costruire e quest’ ultime non appartengono all’individuo, ma alla somma delle anime che sanno condividere.
L’universo dell’emotional marketing e del neuromarketing lo ha ben compreso e sta predisponendo gli spazi virtuali delle future riunioni sociali.
Quali saranno allora le vie immateriali del contatto sociale?
Separati dalla realtà fisica, ma immersi nella realtà virtuale, abbiamo già lungamente sperimentato durante il lockdown la potenza dell’ubiquità digitale e della società simulata. Il lavoro, la scuola, l’università, il divertimento e lo shopping, infatti, non si sono più svolti all’interno di una dimensione pubblica e fisicamente partecipata, ma per mezzo di piattaforme digitali, che ci hanno permesso nell’intimo delle nostre stanze di ricreare le azioni ordinarie affidate allo spazio esterno.
Il lavoro agile, altrimenti denominato smart working o telelavoro, alimentatore di produttività, fortemente raccomandato dal governo italiano e da adoperare entro la fine del 2020 sul 50% dei dipendenti pubblici, si serve di tale tecnologia. Secondo un sondaggio Airbnb, indurrebbe 2 italiani su 3 ad unire lavoro e famiglia, impegno e vacanza, a scegliere come luoghi residenziali ambienti come la campagna e il mare, prima della pandemia associati al riposo, ma adesso coniugabili all’attività quotidiana. Ne esce un lavoratore rinnovato, attento sia al nido familiare che alla carriera.
Per riuscire nell’imporre soddisfacenti sessioni di lavoro e di studio da remoto, non sarà sufficiente, tuttavia, istruire una manciata di algoritmi.
E’ di questo avviso A. Aneesh, professore di Sociology and Global Studies presso l’Università del Wisconsin, nonché autore del bestseller Algocrazia, che avverte a tal proposito: occorre evitare che la governance delle relazioni sia gestita dagli algoritmi di funzionamento delle piattaforme digitali.
Il rischio, infatti, è non solo quello di limitare le scelte decisionali dell’uomo sociale, ma anche quello di comprimere la spontaneità delle relazioni umane. E’ dal reciproco contatto, infatti, che, nasce tra le persone lo scambio di innovazione tacita, qualità pregnante dell’essere umano e risorsa fondamentale per qualsiasi impresa.
Si apre, dunque, la possibilità di uno scenario horribilis, dove allo smart working, promessa di sviluppo e innovazione, subentrerebbe il suo fratello più crudo, ossia il jail working, prigione grigia e alienante, capace di meccanizzare perfino il dialogo umano.
È questa la futura prospettiva dell’Uomo della Folla, la creatura stanca e angosciata alla ricerca disperata di un qualcuno e di un qualcosa in un agglomerato di corpi meccanizzati?
Affinché la risposta risulti negativa, è necessario che erompa la fame dell’uomo sociale. E voi, siete affamati?
Classe 2000, figlia del XXI secolo e delle sue contraddizioni. Ho conseguito la maturità presso il Liceo Classico Eschilo di Gela e frequento la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Trento