Omosessualità: è una questione personale

Gay-Pride-2012-a-Napoli-4

Qualcuno leggerà questo corsivo senza capirlo e allora tuoneranno le trombe del giudizio universale. L’abbiamo messo in conto e non ce ne preoccupiamo più di tanto.
Parliamo di un argomento molto scottante che abbiamo già più volte toccato senza mai approfondirlo come merita: la comunità Lgbt, acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali, comprendendo comunque tutte le sfumature della sessualità o dell’identità di genere che, se volessimo cercare di elencarle, non basterebbe una giornata e il lettore – immaginiamo – si annoierebbe non poco.
Prendendo con le pinze l’affermazione che segue ci vogliamo unire al coro di coloro che affermano «Cosa serve esibire la propria omosessualità?», in effetti i gusti sessuali di ognuno di noi sono, e
devono rimanere, un fatto squisitamente personale: parlando molto terra terra, che me ne frega se il mio collega è gay? Mi interesserà più capire se è un chiacchierone che mi molesta quando lavoro oppure se ha la cattiva abitudine di non lavarsi e quindi devo cambiare postazione. Con questo non stiamo dicendo che l’omosessualità (prendiamo per esempio questo, pur riferendoci a tutte le altre lettere del suddetto acronimo) sia qualcosa che si deve nascondere: non c’è nulla di cui vergognarsi ad essere omosessuali, come nulla c’è da vergognarsi ad essere eterosessuali.
La sessualità, come la religione, è un fatto personale. Non serve a nulla esibirla: se così non fosse, come mai i numerosi
Gay Pride non hanno sortito alcun effetto, se non quello di allontanare ulteriormente i benpensanti dalla comunità Lgbt? Ognuno è libero di fare quello che vuole, di scriversi in fronte «Gay», «Ateo» oppure «Ho le emorroidi», però esibire una parte di sé non si lega al raggiungimento di un’uguaglianza. Inutile prendere spunto dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Spagna o dalla Germania: dobbiamo rendercene conto: necessitiamo di un «programma differenziato»: siamo un paese di trogloditi.

Tito Borsa