Critica al femminismo neoliberale
Ho letto con interesse l’articolo di Beatrice Caniglia uscito il 31 maggio su questo sito. L’ho letto con attenzione perché credevo che avrei trovato qualche osservazione intelligente, degna di nota, insomma non il solito misto di luoghi comuni pronti per il consumo. Mi sono ricreduto. La recente affermazione di Pillon ha portato il mondo della sinistra italiana in subbuglio. Un polverone simile non si vedeva dai tempi in cui la Rai censurò Fedez, un episodio rimasto negli annali. Fino a pochi minuti fa non avevo letto altro che titoli di giornale sulla vicenda. La ragione è che provo un profondo disinteresse, per non dire ribrezzo, nei confronti di questi argomenti, che sono oggetto di un’irrazionalità atroce. Perlopiù non ho alcuna intenzione di difendere un uomo che disprezzo e che fa parte di una classe dirigente parlamentare inetta, stupida e opportunista. Tuttavia, provo molto fastidio quando si attaccano dei giudizi che riguardano la natura sulla base di giudizi morali, e provo altrettanto fastidio quando si vogliono rifiutare dei giudizi morali sulla base del valore morale della persona che li esprime. Dunque, ho voluto cogliere l’occasione per scrivere una risposta, un’occasione persa di dire qualcosa di razionale, andando, prima di tutto, a vedere cosa ha scritto Pillon di così inaccettabile, di così oltraggioso per la morale neovittoriana del XXI. Nel 26 maggio, ha scritto su Facebook due tesi che numererò (con lettere per distinguere diverse formulazioni della stessa tesi). Sarebbe bello sentire degli argomenti empirici e non moralistici contro le tesi empiriche (1AB) e argomenti morali e non sentimentali e ad hominem contro i giudizi morali (2AB). Cito testualmente, anche se mi pare di citare un adolescente.
1.A. «È naturale che i maschi siano più appassionati a discipline tecniche, tipo ingegneria mineraria per esempio, mentre le femmine abbiano una maggiore propensione per materie legate all’accudimento».
1.B. «Ovviamente ognuno è libero, e ci sono le sacrosante eccezioni, ma è naturale che le ragazze siano portate verso alcune professioni e i ragazzi verso altre».
2.A. «Questo però non sta bene ai cultori del Gender, secondo i quali ci DEVONO essere il 50% di donne nelle miniere e il 50% di uomini a fare puericultura».
2.B. «Imporre ai maschi di pagare più delle femmine per orientare la libera scelta di un percorso universitario è un modo di fare ideologico, finalizzato a manipolare le persone e la società».
Passando oltre la forma, 1AB pongono una tesi empirica, sulla forma della natura. Non dicono come il mondo deve essere. Non sostengono che le donne non possano o non debbano studiare ingegneria o altre STEM, o che non esistano donne che lo vogliano fare o che non debbano avere (come hanno) il diritto di farlo. Si tratta di una tesi semplice, che è facile a comprendersi e che è una ovvietà del senso comune: le donne desiderano altro, gli uomini desiderano altro, sono molto simili, ma sono un po’ diversi. Ma noi- perché no?- dubitiamo del senso comune. È saggio non agire se non si è ragionevolmente certi delle proprie convinzioni.
Chi per decidere come agire si affidi al senso comune, per definizione, non lo fa perché dopo riflessione e studio abbia concluso che il senso comune ha ragione, ma lo fa per senso comune, senza dubitare della tradizione. La persona dotata di spiccata razionalità e spirito critico sente invece bisogno di radici razionali per le proprie idee e dunque è costretta a dubitare del senso comune in cerca di verità più salde, che poi possono essere vicine o lontane a ciò che il senso comune prescriveva. Tuttavia, oggi siamo di fronte a un nuovo senso comune che propone un’etica del dubbio, che vorrebbe un popolo di cartesiani, e così si finisce per dubitare del vecchio senso comune, ma non per spirito critico, bensì per nuova tradizione, per nuovo senso comune: con la stessa leggerezza con cui un proprietario del Mississippi era convinto che i neri fossero inferiori, il neoliberale italiano è convinto che si debba dubitare di ciò che è sempre stato senso comune, perché lo si debba fare non lo sa dire. Non va in cerca di una verità più certa con cui sostituire il luogo comune (che per quanto approssimativo è utile), ma va in cerca della mera assenza di luoghi comuni, ciò che in mancanza di più certe proposizioni a prenderne il posto significa semplicemente un più profondo disorientamento.
Proviamo a vedere esattamente cosa c’è dietro a 1A-B:
- 1. Osservazione empirica
Esistono differenze tra i sessi nella distribuzione occupazionale.
- 2. Assioma
Tendenzialmente, gli esseri umani preferiscono passare otto (o più) ore al giorno per cinque (o più) giorni a settimana per il resto delle loro vite a fare lavori che sono conformi al loro carattere (che non li annoiano mortalmente e non li sfiniscono psicologicamente).
- 3. Osservazione empirica.
Esistono differenze caratteriali misurabili tra i sessi (nella misura in cui il carattere si può misurare).[1]
- 4. Osservazione empirica.
Se si fa una classifica dei Paesi in base a quante misure hanno adottato per favorire le pari opportunità dei sessi, le differenze tra sessi, sia nella rilevazione dei tratti caratteriali che nella distribuzione occupazionale, aumentano nei Paesi che hanno fatto di più per favorire le pari opportunità e diminuiscono nei paesi che hanno fatto di meno.[2]
- 5. Conclusione
In base all’osservazione (1), all’assioma (2) e all’osservazione (3) possiamo concludere che la differenza di tratti caratteriali sia un fattore che incide nelle differenze nella distribuzione occupazionale tra sessi in una percentuale X.
- 6. Scolio
A (5) si può rispondere che le differenze di carattere sono dovute all’educazione e all’ambiente sociale, non a differenze ormonali (differenze ormonali che, se non artificialmente indotte, sono dovute a differenze genetiche).
Se le differenze di carattere che spiegano le differenze nella distribuzione occupazionale fossero dovute all’ambiente, si dovrebbe supporre che, qualora la società mettesse in atto delle misure per offrire eguali opportunità a entrambi i sessi e facesse il possibile per abbattere stereotipi sessuali, le differenze caratteriali, o almeno (se non si accetta che le differenze nella distribuzione occupazionale siano dovute a differenze caratteriali) le differenze occupazionali dovrebbero diminuire.
Tuttavia, l’osservazione (4) dimostra che proprio in quei Paesi dove più è stato fatto per la parità dei sessi, le differenze, e caratteriali e (per gli scettici circa la spiegazione caratteriale) occupazionali, aumentano. Dunque, contrariamente all’obiezione, le differenze caratteriali o quale che sia il fattore a fondamento delle differenze nella distribuzione occupazionale, non dipendono da una cultura sessista, ma anzi crescono nelle culture più anti-sessiste.
- 7. Conclusione
Uomini e donne, in media, presentano alcune differenze di carattere, desiderio e motivazione, che rimangono stabili indipendentemente dalla cultura e che si fanno più acute nelle società con maggiore parità di genere.
Dunque, «a prescindere dai genitali possiamo fare ciò che ci pare» non lo nega nessuno, ma non possiamo volere ciò che ci pare. Non possiamo desiderarci fuori dalla nostra condizione desiderativa. E, a quanto pare, differenze genetiche e ormonali giocano un ruolo importante nella struttura motivazionale degli esseri umani, e chi l’avrebbe mai detto, corpo e mente sono in un rapporto!
L’autrice dell’articolo del 31 maggio dice che «la scienza ci ha insegnato che, fatta eccezione per evidenti differenze biologiche ed anatomiche, le attitudini e le preferenze delle persone hanno poco a che fare con la genetica». Ma quale scienza? Possiamo avere delle fonti? Quale scienza ha dimostrato che la volontà umana e il corpo umano sono due realtà sconnesse? Quali studi dimostrano che lo studio Costa-Terracciano-McCrae è sbagliato? Perché si tratta di uno studio paradigmatico, le sue conclusioni sono considerate uno standard ed è stato replicato diverse volte ottenendo lo stesso risultato.
In che misura il carattere determina le differenze occupazionali? Nella stessa misura in cui determina le differenze di reddito[3]. E che misura è questa? Queste sono domande che avrebbe senso fare, ma sono domande intelligenti che possono essere fatte solo una volta che si riconosca che ci sono differenze caratteriali tra sessi e che sono dovute non alla cultura ma alla struttura fisica dei loro corpi (il cervello sta nel corpo): che piaccia o no, non siamo un fenomeno mentale indipendente dai fenomeni fisici. Dunque, quando ci inizieremo a porre queste domande partiremo dal presupposto che 1AB è vera: le donne, per natura, in media, sono un po’ più interessate alle persone e meno alle cose rispetto agli uomini, i quali sono un po’ più interessati alle cose e meno alle persone, in media, in più le donne tollerano meno le emozioni negative, queste sono due differenze che ho voluto citare scegliendole in modo arbitrario da un insieme di differenze che si possono scoprire se solo si ha il desiderio di mettere in dubbio il senso comune per giungere a cose più certe, anziché tanto per metterlo in dubbio.
La tesi 1AB, dunque, appare una verità di fatto, o, se si vuole essere cauti, l’ipotesi più ragionevole in base a ciò che sappiamo (dunque l’ipotesi in base alla quale, per quanto ne sappiamo, ha senso agire).
Avevo pensato di scrivere anche una difesa della tesi 2AB, ma non mi va di parlar da solo e riconosco che 1AB è la condizione per poter parlare serenamente di 2AB. Tuttavia, qualche osservazione la vorrei fare. La tesi 2AB è una tesi morale e va compresa e vi si deve rispondere su questo piano. Preso atto della verità di 1AB, risulta molto difficile non vedere che spingersi oltre la garanzia di pari opportunità significa voler sindacare sulle scelte delle persone.
Se si parla di uguaglianza dei sessi come pari opportunità, la maggioranza, salvo qualche rarissima eccezione (del resto esistono anche gli omicidi, che vi aspettavate?), è d’accordo. Con pari opportunità intendiamo l’assenza di discriminazione giuridica (es. le persone del sesso y non possono svolgere la mansione x, o per svolgerla devono superare criteri diversi da quelli del sesso z). Questo, in Italia come in tutti i Paesi in cui il problema dell’uguaglianza viene posto, non è un problema.
Tuttavia una volta raggiunta l’uguaglianza giuridica, il movimento femminista, cosciente della distinzione tra formale e reale, distinzione caratteristica dell’armamentario concettuale dei movimenti politici genericamente marxisti (comunisti e socialisti) i quali sono sempre stati per l’uguaglianza formale/giuridica dei sessi, ha usato queste stesse categorie per analizzare il rapporto tra sessi, giungendo alla conclusione che l’eguaglianza formale tra sessi era stata raggiunta, ma quella materiale doveva ancora venire. Perciò, nonostante la legge fosse uguale per tutti e proibisse la discriminazione, il movimento femminista e tutto il mondo politico di sinistra hanno ritenuto che fossimo ben lontani dall’ottenere l’uguaglianza delle opportunità dei sessi. Ma ciò è tutto da dimostrare. Il dispositivo teorico, quello della distinzione tra formale e reale, è utilizzabile nell’ambito dei diritti del cittadino e dell’uguaglianza tra cittadini per un motivo teorico preciso. Anche tra comunisti, quando si è parlato di uguaglianza materiale, questa non ha mai significato l’assurda proposizione secondo cui ogni uomo dovrebbe avere in atto eguale accesso ai mezzi di produzione, ma solo in potenza.
La sinistra neoliberale (la sinistra degli ultimi decenni) ha invece inteso proprio in questo modo il concetto di uguaglianza materiale. Infatti, qual è la prova con cui si dimostra che vi è discriminazione? Semplicemente: la non uniformità dei sessi nella distribuzione occupazionale. È mai passato per la testa a qualcuno che forse tutte o buona parte delle differenze nella distribuzione siano dovute a fattori diversi dalla arbitraria discriminazione sessuale, uno fra i tanti, la volontà, il libero arbitrio che non è una facoltà metafisica in connessione con Dio (o, chi è credente lo riconoscerà, non solo) ma un fenomeno mentale che ha una qualche connessione coi fenomeni fisici? Qualcuno ha mai pensato che serva un altro criterio per stabilire che vi è discriminazione sessuale rispetto alla banale constatazione che vi è differenza nella distribuzione occupazionale o quella di reddito? E se la risposta, ora, diventa sì, qual è esattamente questo criterio? Prima di accusare una società, non solo quella Italiana, fatta di 60 milioni di persone circa, ma tutto il mondo o quasi, di aver toppato clamorosamente il modo di gestire i rapporti interpersonali da 100.000 anni a questa parte, ci si dovrebbe assicurare di avere un criterio di valutazione che rispetti gli standard minimi di quello che chiamiamo scienza.
Una ulteriore nota circa i metodi per risolvere una discriminazione che bisogna ancora trovare un modo per misurare. Tra socialisti (in senso largo) si sapeva che i diritti individuali, quelli dello stato liberale, erano solo libertà formali, cioè con esse si eliminavano gli impedimenti, gli ostacoli, per realizzare determinati scopi, ma non si garantiva già anche l’accesso ai mezzi necessari per realizzarli e ci si trovava come un Colombo senza caravelle: liberi di sognare le indie! Tuttavia, la sinistra neoliberale ha usato questi strumenti concettuali e li ha applicati a tutt’altro campo e dovrebbe prima dimostrare che ciò sia possibile. Infatti, lo Stato può garantire i diritti sociali tramite diversi strumenti legislativi ed economici che vanno, sostanzialmente, a togliere al datore di lavoro il potere contrattuale che deriva dagli ìmpari rapporti di forza tra questi e il lavoratore (il primo è proprietario e può non guadagnare nulla per parecchio tempo, il secondo no, per fare un esempio, quindi nel contrattare è il datore di lavoro ad avere il coltello dalla parte del manico). Si tratta, insomma, di pareggiare i rapporti di forza tra lavoratore e datore di lavoro in uno specifico rapporto, quello del contratto di lavoro. Ora, ci sarebbe da spiegare nel rapporto tra uomini e donne cosa debba fare lo Stato esattamente e per quale motivo sia giusto farlo, in quale senso si possa dire che una delle parti abbia il coltello dalla parte del manico, che il rapporto di forze sia sbilanciato in modo strutturale. Nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore c’è una disparità di forze da cui dipende la dignità dei lavoratori. È giusto che lo stato legiferi e regoli quel rapporto. Ma nel rapporto tra uomini e donne, esattamente, che vogliamo che faccia lo Stato? Chi deve proteggere?
Scorgo una forma di totalitarismo in questi metodi: chi ci dà il diritto di intervenire nel rapporto privato tra persone? Nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore una spiegazione razionale, che riguarda lo specifico tipo di rapporto tra parti, per cui è saggio intervenire: si può mostrare che non sono in un rapporto di parità. Tra uomini e donne a che serve lo Stato? Siamo tutti liberi di esprimere il nostro arbitrio. Se gli uomini vogliono insegnare all’asilo lo possono fare e non mi sembra si debba far nulla di speciale per invogliarli a farlo, se le donne vogliono fare ingegneria possono farla, perché si dovrebbe fare qualcosa di speciale per invogliarle a farlo? Forse si immagina che alle poche che la fanno diano fastidio le occhiate? Ma è normale essere sorpresi quando si vede qualcosa fuori dall’ordinario, per esempio un uomo maestro d’asilo o una donna meccanico. Eppure, esistono.
Coi metodi del totalitarismo, poi, v’è l’infantilizzazione delle donne. Da cosa vogliamo proteggere le donne, dai crimini o dalle occhiatacce e lo scoraggiamento? E chi l’ha detto che la psiche di un essere umano che prende una scelta fuori dal comune deve essere protetta dalle altrui reazioni alla sua scelta, o che le scelte fuori dal comune debbano essere incitate?
Infine, perché desiderare la simmetria nella distribuzione occupazionale? Verrebbe da ipotizzare che la si desideri solo perché si ritiene che la sua assenza sia prova di discriminazione, ma 1AB dimostra che una certa asimmetria nella distribuzione occupazionale ci sarà sempre. Quindi i neoliberali dovrebbero trovare un modo di stabilire in che percentuale le asimmetrie sono dovute a discriminazione e in che percentuale non lo sono.
[1] P.T. Costa Jr., A. Terracciano, R.R. McCrae, Gender Differences in Personality Traits Across Cultures: Robust and Surprising Finding, Journal of personality and social psychology, 2001, vol. 81. N.2, pp. 322-331
Reperibile qui: https://www.researchgate.net/publication/11825676_Gender_Differences_in_Personality_Traits_Across_Cultures_Robust_and_Surprising_Findings?fbclid=IwAR1HRsU0lZmDRaY-8KqT6e7rKk6WAlaY0rzGkgSMTlhYXqeSJlP2So0q3SA
[2] Per le differenze nella distribuzione occupazionale: G. Stoet, D.C. Geary, The Gender-Equality Paradox in Science, Technology, Engineering, and Mathematics Education, Psychological Science, vol. 29, n. 4, 2018, pp. 581-593.
Reperibile qui:
https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0956797617741719?journalCode=pssa&fbclid=IwAR3MJzTGLMlqFpLlGNyf5Wgu3-zbAfpqt9fcSJV3LE9hBgFpH6NjJG3EwTs
Per le differenze nei tratti caratteriali:
A. Falk, J. Hermle, Relationship of gender differences in preferences to economic development and gender equality, Science, vol. 362, n.6412, 19 ott. 2018
Reperibile qui:
https://science.sciencemag.org/content/362/6412/eaas9899?fbclid=IwAR1Sax947icYcdw1U5_Q9U9LD_BcbTtjegJT4UnHeHAFM6VfVI33Dzl6vEA
[3] Qui correlazione tra differenze caratteriali e differenze di reddito:
P.K. Jonason, M.A. Kohen, C. Okan, P.J. O’Connor, The role of personality in individual differences in yearly earnings, Personality and individual differences, vol. 121, 15 gen. 2018.
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0191886917305962?via%3Dihub
Marco Di Croce
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