I diritti delle madri: ancora un’utopia
Viviamo in un paese in cui le donne sembrano avere il pieno controllo delle proprie capacità riproduttive: ogni evento legato alla gravidanza, compresa la sua interruzione volontaria o la sua lieta conclusione con la nascita, viene affrontato con grande serenità, come se la donna godesse della massima libertà e tutela. In realtà, questi eventi spesso portano con sé gravi traumi dovuti al mancato riconoscimento di diritti fondamentali, traumi che le donne subiscono in silenzio, o perché è contro il loro interesse denunciarli, o, e forse è ancora più grave, perché credono che siano normali e inevitabili.
Per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg), le donne italiane devono affrontare, oltre alle difficoltà di compiere una scelta tanto importante e spesso traumatica, anche complicazioni burocratiche dovute al fatto che in Italia la percentuale dei medici obiettori di coscienza è altissima, e in alcune regioni tocca picchi che superano il 90%, come in Molise e in Basilicata. Questo rende estremamente difficile per molte donne ottenere l’ivg legalmente e trovare, entro i novanta giorni dal concepimento, una struttura disposta ad aiutarle: perciò sempre più spesso sono costrette a ricorrere a rischiosi metodi fai-da-te o ad aborti clandestini praticati in condizioni e con modalità altrettanto rischiose. Ma non finisce qui: oltre a ostacolare una pratica perfettamente legale, il nostro paese si accanisce contro le donne che, non essendo riuscite ad accedervi legalmente, lo fanno per altre vie. Il 15 gennaio scorso, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato un aumento da 50 euro a 5 o 10mila euro della sanzione contro chi ricorre all’aborto clandestino. Ciò, oltre a essere inutile e insensato – chi abortisce illegalmente non lo fa che per disperazione: sarebbe il caso di prevenire certe situazioni, anziché farle pesare ulteriormente –, rappresenta un rischio aggiuntivo per la salute: in caso di complicazioni in seguito a un’ivg clandestina, infatti, è naturale che una donna esiti a sottoporsi a cure mediche per timore di una denuncia, con conseguenze anche fatali.
Anche per quanto riguarda l’evento nascita il nostro paese ha ancora molta strada da fare: se è vero che la medicalizzazione ha reso praticamente inesistente il rischio di morte durante il parto, bisogna anche considerare l’altra faccia della medaglia: le donne sono spesso sottoposte a trattamenti non richiesti, inutili o addirittura dannosi, pratici soltanto per il personale medico, che preferisce «finire subito» anziché lasciare che la natura segua il suo corso. Per farsi un’idea è sufficiente dare un’occhiata alla campagna lanciata sui social network con l’hashtag #bastatacere, che invita le donne vittime di «violenza ostetrica» a raccontare anonimamente la propria esperienza. Molti racconti sembrano la trama di un film horror, quando invece accadono tutti i giorni nei nostri ospedali: veri e propri episodi di violenza legalizzata. Non si tratta «soltanto» di abusi fisici e psicologici: si può parlare di violenza anche quando ai genitori non vengono fornite tutte le informazioni per prendere una decisione in piena consapevolezza. Ad esempio, l’Italia supera di quasi tre volte il limite fissato dall’Oms per i parti cesarei, che vengono consigliati ancora a cuor leggero e in situazioni assolutamente fisiologiche. Per fortuna, rispetto a una decina di anni fa la situazione è migliorata, ma le testimonianze raccolte attraverso l’iniziativa #bastatacere sono una prova che la strada, benché sia quella giusta, è ancora lunga.
Spesso si tende a presentare i problemi di cui si è parlato come «violenza di genere». Se è vero che anche qui si è parlato principalmente di donne, è perché sono le prime vittime della violenza, dato che la subiscono direttamente e inevitabilmente. Ma violenza di genere sarebbe negare il coinvolgimento, anche se solo emotivo, del padre: sofferenza è anche quella di un uomo che si sente inerme di fronte al dolore della donna che ama.