Colombia: dopo le urne la pace sembra lontana
Oggi parliamo del referendum di ottobre. No non il nostro, che adesso è a dicembre, ma quello colombiano. Il 2 ottobre l’intero paese si è recato alle urne per decidere se approvare la fine di una delle guerre civili più longeve e cruente della storia, quella tra le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane (Farc) e il governo di Bogotà.
Le Farc sono organizzazioni militari di stampo marxista-leninsta formatesi nel 1964 per contrastare l’ingerenza dei grandi proprietari e del governo colombiano nelle aree rurali del paese. Da questo momento, con l’entrata e l’uscita in scena anche di vari attori internazionali (in primis gli Usa), inizierà una lunga e sanguinosa guerra intestina che in 52 anni porterà a stime (tutte approssimative) di 220mila morti, 7 milioni di sfollati, quasi 22mila sequestri. Con un’affluenza del solo 37,4% degli aveti diritto (circa 13 milioni) e il 50,2% dei «No», meno della metà del popolo colombiano ha rifiutato la fine definitiva di tutto questo. Viene da chiedersi: perchè? Dopo mezzo secolo di guerra civile e un susseguirsi governi ostili a qualsiasi mediazione con i guerriglieri, Juan Manuel Santos, l’attuale presidente della Colombia, ha iniziato le trattative di pace. Gli accordi sono stati compiuti a partire dal 2012 a l’Avana e Oslo con l’appoggio della comunità internazionale, oltre che di Cuba e altre potenze internazionali. Si sono conclusi il 26 agosto di quest’anno con la firma nella capitale cubana di un documento di 297 pagine. La pace sancisce, tra le altre cose, l’assimilazione graduale delle Farc nel parlamento, la creazione del «Sistema integrale» e di una «commissione per la verità» all’interno di esso, non per lasciare impuniti i crimini dei guerriglieri, ma per permettere alle famiglie delle vittime di poter conoscere la verità proprio con la loro collaborazione. Le Farc oltretutto non avrebbero avuto potere decisionale in parlamento fino al 2018. Sono proprio questi i punti su cui la campagna del «No» (guidata dall’ex presidente Alvaro Uribe Vélez) si è concentrata ed è uscita poi vittoriosa, riassunti nell’esaltazione della possibile impunità dei combattenti.
I sondaggi hanno tracciato una mappatura delle votazioni in tutto il paese, e ciò che ne è uscito fuori è che proprio le aree rurali, quelle più colpite, sono state in prima linea per il «Sì». Chocò, Cauca, Vaupés, Tibù, sono solo alcune delle zone in cui il «Sì» ha doppiato, triplicato il «No». Il terzo silenzioso attore della scena è l’astensionismo, che attesta la non volontà del popolo colombiano di avvalersi di uno strumento fondamentale delle democrazie. Il presidente Santos ha forse ceduto alla tentazione di consolidare con la pace anche il suo consenso. Sarebbe bastato infatti ratificare l’accordo, e in questo momento le Farc probabilmente si starebbero raccogliendo nelle zone prestabilite per il disarmo. La reazione di entrambe le parti sembra per ora essere ottimale: sia il leader delle Farc Rodrigo Londoño Echeverri (alias Timochenko), sia il presidente colombiano hanno espresso la volontà di continuare la via della pace. Con una variazione: Uribe con il suo Centro Democrático, in quanto portavoce della volontà popolare, ha ora il coltello dalla parte del manico, e la situazione si complica considerando che le Farc hanno dichiarato più volte di non volersi discostare dagli accordi presi a L’Avana.
Insomma, quello colombiano agli occhi di uno spettatore sembra un grandissimo pastrocchio fatto di propaganda superficiale, rancore del popolo verso le Farc, sottovalutazione dei consensi da parte del governo, e una sorta di amaro in bocca per il fatto che, in fin dei conti, a decidere sono state le città, più popolose, che la guerra però non l’hanno vissuta in prima persona. Di certo c’è solo un fatto: gli accordi sono ora inapplicabili e la via per la pace diventa, di nuovo, tortuosa e incerta.
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