Dopo i sacrifici a loro imposti, i giovani siano al centro del post pandemia
La DAD compie gli anni. Se ce l’avessero detto l’anno scorso, durante una delle mitiche conferenze stampa dell’allora Presidente Conte, probabilmente non ci avremmo creduto. Sembrava una questione temporanea, un esperimento di pochi mesi che si sarebbe concluso dopo l’estate con il consueto ritorno tra i banchi di scuola. Invece così non è stato: a settembre gli istituti scolastici si sono effettivamente ripopolati ma, con la stessa velocità con cui erano tornati alla didattica in presenza, si sono svuotati a distanza di poche settimane per subire da lì in avanti un imbarazzante «apri e chiudi». Si è parlato di scuole come focolai del contagio, si è chiesto ai più giovani di fare uno sforzo, di tenere duro ancora per qualche settimana o mese, per proteggere nonni e genitori. La domanda adesso è: quali sforzi si stanno facendo per proteggere i giovani al loro ritorno alla socialità?
Entro fine mese il governo dovrà presentare alla Commissione e al Consiglio Europeo il Recovery Plan, o Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), in cui saranno contenuti i progetti e gli obiettivi che il Paese intende realizzare grazie agli svariati miliardi del Recovery Fund di cui beneficerà nei prossimi 5 anni. Per ora le indiscrezioni trapelate da Palazzo Chigi in merito sono poche: le parole chiave sembrano essere digitalizzazione, transizione ecologica e infrastrutture. A queste si aggiungono, in seconda battuta, istruzione, equità sociale e salute. Come sottolineato da Tortuga, il think-tank italiano di studenti, ricercatori, e professionisti del mondo dell’economia e delle scienze sociali, il tema caldo con il Recovery Plan sarà assicurarsi che i progetti vengano effettivamente implementati e che, diversamente a quanto si è soliti osservare in Italia, le parole vengano effettivamente tradotte in azioni concrete.
Per le nuove generazioni il Recovery Plan potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio: se in linea di principio dovrebbero essere loro a beneficiare nel lungo periodo degli investimenti e delle riforme su cui Draghi e colleghi stanno discutendo in questi giorni, è altrettanto vero che dal 2027 saranno sempre loro a dover restituire la maggior parte delle risorse erogate con i prestiti europei. Questo sarà possibile senza troppi sacrifici se, e solo se, gli investimenti saranno stati pensati in una prospettiva intergenerazionale che tenga conto della necessità di porrei benessere sociale ed economico di quelle generazioni a cui durante questa pandemia si è chiesto di fare un passo indietro, di seguire un anno e mezzo di le lezioni da dietro uno schermo, per il bene dei più fragili. Sarà dunque necessario investire nell’istruzione e nella ricerca, due campi a cui l’Italia destina ad oggi una percentuale minima della propria spesa pubblica, in politiche attive e riforme in grado di massimizzare l’impatto degli investimenti.
Tra un anno non basterà aver riportato alla didattica in presenza gli studenti italiani. L’obiettivo per allora dovrà essere quello di farli sentire parte integrante di un Paese che fino ad oggi sembra essere stato costruito a misura dei loro nonni, a cui tutti noi vogliamo indiscutibilmente bene, ma che nella realtà dei fatti delle drammatiche conseguenze della crisi economica e sociale innescatasi con la pandemia ne avranno un’esperienza solo parziale. Tra un anno non potremo permetterci più di dire che «la didattica a distanza è meglio di niente», minimizzando tutti disagi psicologici e non a questa associati. Per quel momento bisognerà che le istituzioni abbiano sviluppato la consapevolezza che è troppo facile scaricare sui giovani la responsabilità dei contagi per poi dimenticarsene nel momento cruciale di ricostruzione del Paese.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.