Due opposti modelli di sovranità

Nell’ultimo decennio il concetto di sovranità ha ripreso il posto che merita nel dibattito pubblico. Esistono due opposti modelli di sovranità, sulla cui declinazione le persone si dividono. C’è chi la elogia in ambito nazionale, ritenendola un presupposto imprescindibile per l’attuazione del pieno sviluppo della persona umana come sancito dalla Costituzione; c’è chi, ritenendo superata la dimensione nazionale, punta a trasporlo nel contesto europeo. Questo contrasto si accende laddove i primi argomentano su un’incompatibilità di fondo: l’impossibilità di attuare i precetti costituzionali alla luce dei Trattati europei.

Ritroviamo quest’argomentazione anche in chi firmò, in nome e per conto del popolo italiano, il Trattato di Maastricht:

«È stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del Trattato di Maastricht […]. La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri paesi della Comunità, il Trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere “costituzionale”. L’Unione europea implica la concezione di “stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica […], il ripudio del principio di gratuità diffusa (con conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale) […]». Cit. Guido Carli.

Ciò che emerge dalle parole di Carli giustifica chi, pur sentendosi dare dell’antiquato, sostiene con fermezza la Costituzione in ferrea opposizione ai Trattati europei.

Ora, però, serve sgombrare il campo da un equivoco di fondo che fa capo a due opposti modelli di sovranità: la sovranità nazionale e la sovranità popolare.

La sovranità nazionale

La sovranità nazionale, come esposto dal padre costituente Lelio Basso ne «Il principe senza scettro», emerge da un’astrazione del concetto di popolo in un soggetto indifferenziato e mitizzato, dove il singolo è sommerso dal tutto. Una falsificazione della realtà: un popolo, non avente interessi variegati, dà mandato ai governanti di agire non in nome e per conto suo, ma nell’interesse della nazione, ovvero dei detentori del potere nazionale. Come espresso da Basso:

«Si tratta di un sistema costruito sulle basi di un compromesso tra liberalismo e democrazia, fra la necessità di assicurare il dominio alla borghesia e la necessità di rispettare, almeno in teoria, il principio della sovranità popolare. La principale difesa sarebbe quella di far aderire tutto il popolo al sistema, inculcandogli una determinata mentalità».

Risuona la melodia dell’attualità: l’esistenza superficiale d’istituzioni democratiche (ma, considerata la temporanea(?) enunciazione dei principi di disuguaglianza formale e sostanziale, è d’obbligo un netto declassamento) ove far confluire un diritto di voto meramente idraulico, perché non finalizzato al rovesciamento dei rapporti di forza sociali.

La sovranità popolare

Ben altra portata ha il concetto di sovranità popolare. Per comprenderlo è cosa sacrosanta partire dall’articolo 1 della Costituzione italiana:

«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Rifacendosi al padre costituente Costantino Mortati, «Italia» indica lo Stato-comunità e «Repubblica» si riferisce allo Stato-apparato. L’aggettivo «democratica» esprime il vincolo d’integrale corrispondenza tra la volontà dello Stato-comunità e l’azione dello Stato-apparato.

La Costituzione esprime la sovranità popolare con la formula Fanfani, approvata il 22 marzo 1947. Riprendendo l’argomentazione del proponente: «la parola (appartiene) è sufficiente ad indicare a un sol tempo la fonte, il fondamento e il delegante della sovranità, cioè il popolo». Servendosi di un saggio del 1957 del padre costituente Tosato, citato da Basso, si può ricostruire il significato costituzionale di sovranità popolare, così come deliberato dalla Costituente: non soltanto la sovranità emana dal popolo (come da progetto iniziale), ma appartiene, dunque risiede nel popolo, titolare «inalienabile» della stessa. Ne deriva che lo Stato-apparato (la Repubblica, in tutti i suoi organi), sia inteso come strumento soggetto al vincolo d’interpretazione fedele della volontà popolare. In funzione alla devota fedeltà allo Stato-comunità, il Parlamento dovrebbe essere eletto tramite una legge proporzionale (per Basso da intendersi connaturata allo spirito della Costituzione).

Ultimo ma fondamentale aspetto: il popolo tratteggiato dai costituenti non è un indistinto come da concezione liberale; la sovranità trova sede, espressione e azione nei singoli cittadini della comunità democratica pluriclasse, titolari pro quota di una frazione infinitesima della sovranità popolare (decade qui ogni aberrazione dell’elettorato al caviale fondata sul differenziare il peso dell’elettore in base al grado di alfabetizzazione o, addirittura, sul superamento del suffragio universale), esercitabile nelle forme consentite dalla Costituzione.

Tra i due opposti modelli di sovranità, questi elementi suggeriscono la convenienza di recuperare quella popolare, come intesa dai costituenti. L’unica davvero votata al progresso sociale.