Economia e(‘) politica
Un’idea veteromarxista della società, ormai passata di moda come i pantaloni a zampa d’elefante e i capelli cotonati, vede i rapporti di produzione (ovvero l’economia) determinare in ultima istanza determinare la sovrastruttura; un’idea un po’ meno veteromarxista della società vede quest’ultima determinare i rapporti di produzione: per certi studiosi insomma società ed economia sarebbero in rapporto dialettico, influenzandosi reciprocamente. Ma sarà davvero così? Hanno ragione questi residuati bellici del secolo scorso o hanno ragione i rampanti economisti 2.0, che vedono nell’economia l’incarnazione di leggi universali e intrinsecamente giuste?
Quello che potrebbe sembrare un lontano dibattito accademico è in realtà uno spettacolo cui assistiamo quotidianamente: può un Presidente della Repubblica tirare in ballo le leggi del mercato per impedire un atto politico? In altri termini, possiamo davvero assegnare un primato ontologico dell’economia sulla società?
Per evitare ogni accusa di faziosità, andremo lontano nel tempo e nello spazio.
Madagascar, 1895. L’isola africana diventa vittima del colonialismo francese. Uno dei primi provvedimenti del generale Gallieni fu l’imposizione di pesanti tasse per rimborsare i costi dell’invasione. Tali tributi andavano versati in franchi malgasci, coniati subito dopo l’invasione: il regime creò dal nulla la moneta, per poi richiederla indietro. L’unico modo per evitare la prigione divenne quindi lavorare per il governo coloniale, andando a lavorare nelle piantagioni che si andavano diffondendo. Tuttavia il progetto non deve essere visto solo come un cinico mezzo d’estrazione di plusvalore (altra parolaccia del secolo scorso). La Francia fece in modo che ai contadini africani rimanesse in tasca un po’ di denaro da poter spendere in chincaglierie. Nel giro di qualche decennio i meccanismi di mercato entrarono nella cultura e nel folklore malgascio, tant’è che i medium locali invocano gli spiriti dei mercanti.
Se accettiamo che gli uomini siano tutti uguali e che la differenza tra il Madagascar e l’Italia è solo quantitativa e non qualitativa, cosa ci insegna questa vicenda? Che l’economia è solo uno tra i tanti instrumenta regni. Prima dell’arrivo dei francesi le leggi del mercato erano sconosciute in Madagascar, non esistevano e gli individui agivano secondo principi diversi dal mero tornaconto personale: il principio universale cui Adam Smith ricorre per giustificare il capitalismo era sconosciuto. Dunque principi e leggi economiche sono enti particolari, non universali.
Per cambiare una società va cambiata la sua particolare struttura dei rapporti di produzione: tramite il franco i malgasci sono mutati antropologicamente, e ora desiderano gli stessi beni desiderati dai francesi. La moneta è stato uno dei mezzi usato dall’amministrazione coloniale per imporre la propria egemonia e per colonizzare anche le menti degli africani.
Legittimare oggi scelte politiche in nome dell’economia significa accettare il primato ontologico di quest’ultima, tuttavia sia la politica che l’economia sono entrambe cose umane, instrumenta regni. Gramsci ci ricorda che per governare non si ricorrere solo alla coercizione bruta, ma si ricorre soprattutto alla cultura. Farci credere che dobbiamo pagare più tasse, «fare sacrifici» per calmare «i mercati» è stata una riuscitissima operazione di egemonia culturale, che ha creato una generazione di individui sfruttati, demotivati e arrivisti.
Sia in Italia che in Madagascar, le autorità, tramite l’economia, hanno estratto plusvalore e forgiato uomini confacenti a questo sistema, ma in Africa avevano lo straniero in armi a imporre questa governamentalità e hanno dovuto aspettare 65 anni prima di liberarsi. Noi ci riusciremo prima? E riusciremo a creare una cultura libera dall’individualismo?