La nostra esigenza di «ministre» e di «sindache»
Pubblichiamo la seconda parte della risposta di Elena Ferrato a Vittorio Sgarbi, che all’inizio dell’anno si è mostrato contrario all’utilizzo di termini come «sindaca» e «ministra». La prima parte la trovate qui.
Cecilia Robustelli (in foto), forse la massima studiosa italiana che si occupa di sessismo linguistico, nota che, quando alcuni parlanti si riferiscono a professioni ritenute prestigiose o a ruoli istituzionali di un certo rilievo, nonostante il referente sia una donna, usano architetto, chirurgo, direttore, ingegnere, ispettore, medico e anche assessore, cancelliere, consigliere, ministro, sindaco.
Perché sono spiacevoli all’orecchio solo i termini femminili riferiti a professioni prestigiose, mentre nessuno storce il naso per cassiera o impiegata o professoressa? Questa è una delle riflessioni che propone la studiosa in Donne, grammatica e media, fascicoletto pubblicato dalla rete di giornaliste Gi.U.Li.A, che vi invitiamo a leggere perché tratta la questione in modo semplice e accurato.
Proviamo a rispondere alla domanda: forse siamo «abituati» a dire cassiera mentre sindaca e ministra sono parole nuove? La studiosa, come altri colleghi, nota che questi termini, oltre a non violare alcuna regola grammaticale dell’italiano, non sono nemmeno così «nuovi»: ministra è usato da Dante nell’Inferno, avvocata deriva dal latino (advocata nostra era l’appellativo usato nel «Salve Regina»).
Presidente invece non è un termine neutro, come affermato da Sgarbi, perché in italiano in genere neutro non esiste. È un termine che deriva da un participio e, come tutti questi termini, ha uguale desinenza sia al maschile sia al femminile. Se si vuole, ma non è necessario, si può usare presidentessa, altrimenti presidente si riferisce sia a persone di sesso maschile sia a persone di sesso femminile.
Perché non ci turba dire cassiera ma ministra sì?
Le ministre nel governo italiano ci sono dal 1976, anno in cui Tina Anselmi è nominata ministra del Lavoro e della Previdenza sociale nel governo Andreotti III.
Prima alcuni non accettavano che le donne non ricoprissero tali cariche. Prima ancora, molti non accettavano che le donne potessero votare. Negli ultimi decenni le donne hanno ricoperto cariche e sono arrivate a svolgere professioni a cui in passato non erano mai giunte, vincendo la lotta contro una società patriarcale che le voleva (e spesso le vuole ancora) solo madri o solo mogli. Abbiamo ingegnere, sindache, chirurghe, non possiamo negarlo né negare loro queste posizioni professionali. Però a loro è ancora negato il nome. Parità sociale sì (forse? La questione è dibattuta) ma non linguistica. Meglio chiamarle al maschile, turba di meno gli animi, no?
Queste sono le domande che si pone anche Robustelli nel 2000: «Perché tanta difficoltà ad accettare forme come ingegnera, tanto più che la disponibilità di infermiera, ragioniera, cassiera, ecc. ne favoriscono la creazione? Intervengono qui fattori sociali e culturali per i quali alla donna non è ancora riconosciuta la piena possibilità di esercitare posizioni di prestigio fino a ieri riservate agli uomini: finché si tratta di fare la cassiera, o la cameriera, va bene, ma quando si punta più in alto, la situazione cambia». Quindi di certo oggi le donne possono svolgere certe professioni, «ma in un certo senso “non lo si dice”. Si tace il fatto. Non si nomina. E il “non nominare” significa “non riconoscere l’esistenza di qualcosa”».
Ecco il punto: sono la società e la cultura a condizionare il nostro modo di esprimerci.
Un tempo sicuramente le professoresse saranno state prese di mira; oggi sono contestate sindaca e ministra. Eppure pian piano, tra i parlanti comuni, non tra i «professoroni», questi termini si stanno diffondendo. Nonostante queste crociate «alla Sgarbi» o «alla Napolitano» (che usa un’espressione ormai antiquata come la signora ministro), tra qualche anno non ci stupiranno più. La lingua, infatti, è fatta dai parlanti e risponde a una nostra esigenza basilare: comunicare. Se noi parliamo con un interlocutore dell’avvocato che «è arrivato in ritardo all’appuntamento» per poi aggiungere «lo sai che ha appena avuto un bambino?», perché di una donna si tratta, comunichiamo in modo chiaro ed efficace o rischiamo di essere fraintesi? Ecco che, perlomeno nella quotidianità, abbiamo bisogno dei femminili come ministra più di quanto alcuni pensano.
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