«Ue 2020»: l’Europa contro la povertà culturale

Rafforzare la cooperazione tra Ue in materia di inclusione e cooperazione sociale. Non è l’ennesimo slogan politico, bensì un obiettivo su carta che anche l’Italia si prefigge di perseguire entro il 2020. Di cosa stiamo parlando?
La Commissione Europea ha presentato nel 2010 una proposta denominata «Programma Ue 2020» finalizzata a raggiungere una crescita comunitaria «intelligente, sostenibile e inclusiva». Concretamente, parliamo di numeri ben precisi, come la riduzione di emissioni di carbonio al 20% e l’investimento del 3% del PIL in ricerca e sviluppo.
Uno degli obiettivi più significativi di matrice sociale riguarda la povertà: l’Italia, assieme agli altri paesi che hanno sottoscritto tale decreto, conta di ridurre di 20 milioni le persone sul suolo europeo a rischio povertà. La povertà di cui stiamo parlando non rientra solamente, tuttavia, nell’ambito economico, bensì comprende anche una nuova forma di povertà che, a chiamarla così sembrerebbe un vaneggiamento filosofico, consiste nella povertà dello spirito: la cosiddetta povertà culturale.
La povertà culturale colpisce tutte le persone che si sentono escluse, emarginate e isolate e che non possono accedere al più grande bene esistente, non quello pecuniario, bensì quello antropologico. Anziani, disabili, stranieri sono alcune delle macrocategorie maggiormente colpite da questo grande male, che lede la loro possibilità di stare a contatto con gli altri e di avere accesso alla conoscenza, alla cultura stessa.
Quali iniziative ha dunque deciso di praticare l’Ue? Una delle sette iniziative cardine del progetto Ue 2020, la Piattaforma europea contro la povertà, ha come obiettivo quello di garantire una coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione e dell’inclusione sociale delle persone che vivono in povertà. Il problema è risolvibile dalla radice grazie alla fonte di risoluzione di molti dei mali del mondo: l’educazione.
L’Italia ha scelto, dal punto di vista scolastico, di adottare una piena integrazione del diverso mirando a una educazione di tipo interculturale, che si traduce nella promozione dell’integrazione nel pieno rispetto delle molteplici identità.
Per citare qualche numero, nell’anno scolastico 2013-2014 i minori stranieri frequentanti erano pari ad un 8% dell’intera popolazione scolastica. A questo proposito nel dibattito educativo si è aperto lo spiraglio della trasmissione, a livello scolastico, delle cosiddette «competenze interculturali dei cittadini». Tali competenze (di cui si sente molto parlare negli ultimi decenni, che consistono nel distacco dalla concezione prettamente nozionistica che possedeva la scuola italiana a vantaggio di un’abilità nel «saper fare») vogliono andare a formare atteggiamenti, conoscenze e un pensiero critico al fine di sapersi relazionare con l’altro nel rispetto di una cultura, una lingua, un’origine o caratteristiche psico-fisiche differenti dalle proprie. Concetti come atteggiamenti di apertura e disponibilità al dialogo e al confronto, una visione etnorelativa ed empatia risultano dunque dei pilastri per una scuola che mira al dialogo interculturale. Il «diverso» è dunque parte di una nuova normalità, eterogenea e dinamica, a cui si deve far fronte con flessibilità e adattabilità.
È certamente questa la crisi a cui l’Italia dovrebbe far fronte con maggiore urgenza.