A favore dell’utero in affitto, atto di libertà
Lo spauracchio dei «militanti cattolici» (® Umberto Galimberti) è diventato il cosiddetto «utero in affitto», più propriamente maternità surrogata: si tratta del dovere assunto da una donna di provvedere alla gestazione e al parto per conto di un individuo o di una coppia sterile. Secondo questi combattenti per la fede, il ddl Cirinnà – prevedendo l’adozione del figlio biologico del partner anche per le coppie omosessuali – porterebbe alla legalizzazione di questa pratica che, sempre secondo questi individui, si identificherebbe come una vera e propria «compravendita di bambini».
A parte il fatto che non c’è nessun legame fra la maternità surrogata e il ddl Cirinnà, la criminalizzazione dell’«utero in affitto» merita una discussione. Innanzitutto è bene distinguere la pratica «commerciale» da quella gratuita: se quest’ultima è analoga alla donazione di un organo, la prima è invece assimilabile alla compravendita di fegati o di reni.
Si tratta di un tema molto discusso e dalle mille sfaccettature etiche, filosofiche e morali. Come uscire da quest’impasse se non analizzando i fatti ed escludendo le opinioni? Innanzitutto la perifrasi «utero in affitto» oltreché brutta è pure sbagliata: l’«affitto» implica l’utilizzo da parte di un soggetto di un bene di proprietà di un altro soggetto dietro pagamento in denaro. Per quanto riguarda la maternità surrogata gratuita, l’errore lessicale è palese; ma esso è presente anche nelle discussioni sulla pratica commerciale: chi «usufruisce» dell’utero? Il bambino ovviamente. Chi paga per questo? I genitori. Collegare l’utilizzo da parte del nascituro (che, precisiamo, non è un individuo fino al momento del parto) al pagamento da parte dei genitori è sensato solo se la gestazione viene concepita come una «prestazione» retribuita; questo sia perché è impensabile identificare il feto-embrione con la coppia che vorrà adottarlo, sia perché è altrettanto assurdo determinare la «proprietà» dei futuri genitori nei confronti del nascituro. Anche se uno dei partner ha contribuito al patrimonio genetico del feto, quest’ultimo risiede nella madre surrogata ed è parte di lei. Se così non fosse, una donna non potrebbe decidere di abortire senza il consenso del padre biologico dell’embrione.
Se una donna si mette a disposizione – gratuitamente o dietro pagamento – per provvedere alla gestazione o al parto per conto di altri per sua libera scelta, che problema c’è? Ovviamente tutto dev’essere compiuto alla luce del sole e secondo ogni forma di tutela per tutti gli agenti. Il nostro scopo primario in quanto esseri viventi è, forse ancor più dell’autoconservazione, la conservazione della specie: la maternità surrogata non fa che venire incontro a questo bisogno fondamentale. Collegare una persona che può avere figli ma non vuole crescerli a delle persone che non possono avere figli ma vogliono crescerli significa permettere la nascita di nuovi individui, e quindi la prosecuzione della specie. Nulla di criminale, nulla di demoniaco, finché la «mamma surrogata» è pienamente consapevole di cosa sta facendo e accetta spontaneamente il suo ruolo, senza essere costretta da qualcuno o dalle circostanze.
Impedire, come di fatto è in Italia, una pratica come questa significa limitare la libertà di una persona di prendere delle decisioni che riguardano il suo corpo. Se la legge arriva a questo, significa che di nostro non abbiamo davvero più nulla.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia
Se per un attimo si riflette sulla molteplicitá di processi contro natura sdoganati dalla medicina a fini terapeutici o solo estetici, sulle modalitá con le quali coppie etero si procurano figli adottivi, al traffico di organi, illegale certo ma non per questo meno fiorente, be’ con che faccia ci ergiamo a moralisti di fronte ad una madre che mette a disposizione la sua capacitá di procreare?! Patetica come al solito la posizione dei cosiddetti cattolici.