Fine vita: un referendum per superare l’immobilismo parlamentare
Estate 2019: mentre l’opinione pubblica era concentrata sulla solita strumentalizzazione degli arrivi dall’Africa, sui deliri d’onnipotenza di un ubriaco al Papeete e sull’aggiornamento di Conte dalla versione base alla 2.0, scadeva il tempo concesso al Parlamento dalla Corte Costituzionale per legiferare sul fine vita, allineandosi alle linee guida dettate dalla sentenza sul caso Cappato/DJ Fabo di due anni prima.
Estate 2021: mentre l’opinione pubblica è distratta dallo sprint finale di una legge giuridicamente confusionaria e non incisiva sui diritti della comunità LGBT, dagli Europei di calcio e dai deliri di un ex provocatore da palcoscenico che fa di tutto per non abdicare il suo trono di cartone a favore di Conte versione 3.0, il Parlamento ha fatto altri due anni di scena muta in merito al fine vita, confezionando così una delle più colossali pagliacciate istituzionali dell’ultimo decennio.
Questa immobilità è dovuta alla semplice incapacità del legislatore? Non proprio. Vi sono delle ragioni politiche ben precise.
La prima è che il suicidio assistito è un tema che riguarda una minoranza davvero esigua di persone e di casistiche, ovvero persone maggiorenni che, a causa di incidenti o di malattie per cui non vi è speranza di un decorso positivo, è mantenuto in vita da metodi artificiali ma rimane lucido, cosciente e in grado d’intendere e di volere. Soddisfatti tutti questi requisiti, il soggetto deve manifestare spontaneamente il desiderio di accorciare la propria agonia e deve essere verificato che tale desiderio non sia nato da influenze o costrizioni esterne. Da tutte queste specifiche si evince che i possibili suicidi assistiti sono troppo pochi, troppo sofferenti e troppo silenziosi affinché la politica mainstream sia costretta a occuparsene per logiche di consenso. Insomma, non servono ai partiti, dunque, a prescindere dal colore politico, possono essere lasciate a marcire contro la loro volontà. E tanti saluti sia alla Corte che si è espressa a loro favore sia al libero arbitrio.
La seconda, sempre relativa alla politica del consenso, è che si tratta di un argomento delicato, che tocca la sensibilità intima ed essenziale dell’individuo, nonché complicato, perché farsi una posizione in merito implica analisi piuttosto approfondite e una certa conoscenza della prassi medica riguardo le malattie terminali. Insomma, servirebbe un dibattito approfondito che non lascerebbe spazio a opinioni semplificate e polarizzate. Una cosa controproducente per la politica dei like e degli spot.
Infine, certi gruppi di potere fortemente ideologizzati, legati a una morale religiosa ormai considerata retrograda perfino tra la maggioranza dei cattolici, hanno sempre esercitato pressioni affinché il tema non venisse sollevato e rimanesse chiuso in qualche oscuro cassetto di Montecitorio e sempre lo faranno. Inoltre, come ci dimostrano i recenti tentativi d’ingerenza del Vaticano nella politica nostrana, questi gruppi hanno gli agganci giusti per paralizzare Roma.
Perciò l’Associazione Luca Coscioni ha deciso di passare all’azione e ha depositato il quesito referendario per modificare l’articolo 579 bis del Codice Penale, che riguarda l’omicidio del consenziente, ovvero operare l’eutanasia attiva. Mentre sull’articolo 580 bis, ovvero operare azioni propedeutiche al suicidio come fece Cappato accompagnando DJ Fabo in Svizzera, è già intervenuta la Consulta dando ragione all’attivista.
E non poteva essere altrimenti: secondo la legge attuale, a un malato terminale è permesso rifiutare l’alimentazione artificiale e lasciarsi morire di fame e di sete tra atroci sofferenze, ma non utilizzare un farmaco per saltare quel passaggio. Tutto ciò è tanto illogico, quanto liberticida, quanto disumano.
I banchetti per le firme sono in corso di allestimento in tutta Italia e ci sarà tempo fino al 30 settembre per raggiungere la quota richiesta, 500.000, per formalizzare il referendum e porre un altro mattone verso un sistema in cui le persone siano libere di disporre del proprio destino.
Classe 1993, volevo fare il giornalista ma non ho la lingua abbastanza svelta.
Mi arrabatto tra servire pietanze, scrivere e leggere romanzi, consumare bottiglie di vino, crisi esistenziali, riflessioni filosofiche di cui non frega niente a nessuno e criptovalute.
Amo il paradosso, dunque non posso essere più felice di stare al mondo.