Furio Colombo: io e i Beatles in India
Il 24 giugno di cinquant’anni fa i Beatles suonavano per la prima volta in Italia, a Milano, Genova e Roma. Per quanto la beatlemania fosse già un’incontrollabile epidemia in Inghilterra e America, il bel paese rimaneva ancora un po’ scettico nei confronti dei Fab Four, e i concerti non registrarono un successo strabiliante. Il loro tour del ‘65 sarà il primo ed unico in Italia.
In onore di quei giorni abbiamo intervistato Furio Colombo, in particolare per ricordare di quando ebbe la fortuna di trovarsi nel luogo giusto al momento giusto: India, 1968.
I Beatles sono in viaggio verso il santuario Ashram dello yogi Maharishi Mahesh per un corso di meditazione, lontani da riflettori e giornalisti. Eppure, Furio Colombo, allora inviato Rai, accompagnato da Franco Lazzaretti, riesce a riprendere parte di quell’esperienza.
Come è riuscito ad avere questo privilegio?
Ah, ancora non lo so neanch’io! Sono state una serie di circostanze favorevoli. Tornavamo dal Vietnam, dove avevamo lavorato a lungo su un documentario, I bambini di Bien Hoa, e stavamo approfittando dei giorni di riposo concessi a chi si occupava di quella guerra, che normalmente si svolgevano in Thailandia. Ma, dato che allora seguivo un’altra pista, un’indagine sui discepoli ancora viventi di Gandhi, decisi di andare in India. Ero in un albergo di New Delhi in attesa di un informatore, quando, inaspettatamente, mi vidi sfilare di fronte agli occhi i Beatles, Donovan, Brian Wilson. Tra gli altri c’era anche Mia Farrow, che avevo conosciuto a New York – abbastanza bene da poterle chiedere cosa stesse succedendo e dove stessero andando. Forse i Beatles non me l’avrebbero mai rivelato, ma l’amichevole e ventenne Mia Farrow lo fece subito. Parlai allora con John Lennon, un ragazzo intelligente, anch’egli incontrato a New York con Luciano Berio. Lennon accettò la mia proposta di seguirli, per quanto gli altri fossero un po’ più apatici e meno interessati.
La mia idea di muoversi verso l’Ashram in treno fu però bocciata dagli altri tre, che per andare alla meditazione preferirono il più artificioso (e sbagliato) elicottero. Io però non volevo rinunciare all’idea del viaggio in treno, che avrei voluto fosse l’apertura e la chiusura del mio documentario, e così ci dividemmo: noi siamo partiti subito verso il nord, i Beatles invece si sono mossi il giorno dopo.
Per noi l’andata fu piuttosto avventurosa, entusiasmante: il treno smetteva la sua corsa decine di chilometri prima del nostro punto d’arrivo, le sorgenti del Gange, e così abbiamo proseguito in autostop, attraversando l’area delle Scimmie ladre, attraversato un ponte di corde da film d’avventura. Insomma, alla fine arrivammo all’Ashram giusto, il più grande. I Beatles, già arrivati, ci aspettavano al cancello, e appena ci hanno visto hanno attaccato con le chitarre, come si vede nel film.
Fu una cosa unica al mondo, che nessun altro riprese né fotografò: non c’erano giornalisti, solo altri privati (e ricchi) cittadini che si pagavano la meditazione. La sola foto dei Beatles in quel contesto se la sono scattata tra loro!
Quanto è rimasto nell’Ashram?
Siamo stati tre notti e quattro giorni, i Beatles molto di più. Noi avevamo il problema dell’autonomia finanziaria. Il detour, imprevisto ed inaspettato, era stato considerevole. Non potevamo dire alla Rai dov’eravamo scomparsi, anche se era stata informata della nostra piccola avventura, pur senza mostrare eccessivo entusiasmo.
Ebbe modo di parlare con i Beatles, di scambiare con loro qualche battuta?
Sì, con Lennon. Poco dopo si trasferì a New York, non lontano da dove abitavo io, e ci vedemmo ancora, almeno altre due volte. Attraversavamo insieme Central Park, io vivevo da un lato, lui dall’altro, così talvolta lo accompagnavo alla Dakota House, dove si era stabilito con Yoko Ono, che però non ho mai frequentato. Yoko Ono non amava chi conosceva e ammirava i Beatles «prima di lei», prima della sua influenza. Ecco, era una non-simpatia reciproca: lei non aveva entusiasmo per chi ne parlava come di un gruppo autonomo, per Yoko Ono esisteva solo il fenomeno di lei stessa e Lennon, e solo di quello si doveva parlare. Ma a me non interessava Yoko Ono.
Ho poi visto molto più spesso McCartney, ma c’è poco da raccontare, non siamo sulla stessa lunghezza d’onda, neanche lontanamente. McCartney aveva semplicemente sposato la figlia di una persona che conoscevo bene, il signor Eastman, quindi li vidi spesso, ho giocato a tennis con loro, ma ormai completamente al di fuori della mistica del gruppo.
Certo, anche perché era ormai dal ’67 che nei Beatles erano iniziati a palesarsi una serie di dissidi e problemi interni. Ha avuto modo di percepire che qualcosa si stesse incrinando, nonostante il clima di spiritualità e meditazione che si respirava in India?
Il ’68 coincide inoltre con il divorzio di Lennon. Non era un momento semplice per la loro vita, l’anno stesso era di per sé complicato. Ma il clima lì era tutt’altro che spirituale: il Maharishi Yogi intendeva proporre un concetto molto tecnico di meditazione, perché non voleva scontarsi con tematiche religiose, quindi potremmo definirlo un docente di meditazione laico. Un personaggio controverso, in tutti i sensi possibili. Però io non credo alla versione secondo cui i Beatles se ne sarebbero scappati non appena sorto il sospetto che il Maharishi Yogi li stesse sfruttando. Sapevano benissimo che Maharishi avrebbe tratto non poco vantaggio personale presentandosi come il «guru dei Beatles». Ecco, egli non è mai stato il personaggio ascetico e remoto che ci hanno mediaticamente presentato. La mistica induista è decisamente più severa di quella che conosciamo noi – e di quella che si svolgeva nell’Ashram. C’erano canzoni, scherzi… poi sul prato il Maharishi dava un soggetto su cui riflettere e svolgeva la sua predicazione, come si vede nel documentario in presa diretta. Ne ho conosciuti almeno altri due di personaggi di quel genere, uno molto vicino ad Antonioni, e un altro che nella piccola città di Antilope, Oregon, era riuscito ad attirare su di sé l’attenzione di non poche migliaia di persone, e non ho trovato alcuna differenza tra il primo, il secondo ed il terzo: grande avventure commerciali fatte da persone che sono in grado di farle.
Ma ciononostante, quest’esperienza ha avuto un significato per i Beatles?
Certo, ma per me è stato un vero peccato non abbiano voluto spostarsi in treno. Avrebbero potuto vedere più India, invece hanno in qualche modo scelto di stare protetti. Però senza dubbio hanno ascoltato molto, il suono indiano ha lasciato un’impronta grandissima nella loro musica.
Un’ultima domanda, per tornare al concerto del ’65. Lei era un fan dei Beatles di vecchia data o se ne innamorò una volta visti dal vivo?
Avevo maturato sin da subito un interesse nei confronti della loro musica, e a conferma delle mie idee c’erano sia le parole di Berio che quelle dei buoni critici americani, che presero il fenomeno Beatles molto seriamente, slegandolo dalla sua componente mediatica, cosa che in Italia non accadde. Al contrario: da noi i Beatles erano solo un fenomeno mediatico, non ci si soffermò mai abbastanza sulla loro nuovissima musica. Poi ci sarebbe qualcosa da dire sul loro confronto con i Rolling Stones, «i buoni e i cattivi», ricordo che L’espresso vi dedicò un numero intero.
E così la mia esperienza dei Beatles a Roma fu differente rispetto quella degli altri giornalisti. Per me fu una cosa molto più musicalmente seria che per loro. In quel periodo lavoravo alla Rai, e ricordo i colleghi dei vari giornali (a Roma all’epoca se ne stampavano almeno cinque) che li prendevano in giro, dicendo che «rompevano i timpani».
Il concerto, poi, fu un furore di ragazzine. Un pubblico nuovo per l’Italia, perché composto da under 20. La vita giovanile nell’Italia di allora aveva una connotazione puramente politica e studentesca e dunque si svolgeva sopra i vent’anni. L’età media che invece improvvisamente comparve nella piazza era 17 anni, e questo era un fenomeno inedito. Per la prima volta, sentii un urlo di folla dominato dalla voce femminile, mentre tutti gli altri cori, dallo sport alla politica, erano dominati e diretti dalla voce maschile, per quanto delle donne vi fossero anche in quei contesti. Ma per me non fu una sorpresa: ero stato infatti presente, per puro caso, in centro a New York, davanti all’Hotel Plaza, quando i Beatles si affacciarono all’altissimo balcone dell’Hotel. Anche allora la folla, che occupava tutto lo slargo del Plaza più una buona parte della Fifth Avenue, aveva questa nota dominante di voce femminile.
Bellissima intervista! Un applauso a Silvia e soprattutto all’ex direttore dell’Unità (quella vera) Furio Colombo! Grazie di dare voce anche alla vera sinistra