25 aprile: la parola a Furio Colombo
Furio Colombo, storico giornalista italiano, è stato corrispondente dagli Usa di Repubblica e della Stampa, collaboratore del New York Times, insegnante di giornalismo alla Columbia University, direttore dell’Unità, senatore e deputato. Ora collabora con Il Fatto Quotidiano. Di origini ebraiche, è sempre stato in prima linea sulla questione israelo-palestinese e sulla memoria del 25 aprile.
Furio Colombo, sabato ricorderemo il 25 aprile: che paese è l’Italia a settant’anni dalla fine della guerra?
Un paese più cattivo, più solo, meno conscio delle condizioni del resto del mondo. Anche un paese più provinciale, un Matteo Salvini settant’anni fa non ci sarebbe mai stato e nemmeno un Joe Formaggio, privo di cultura, senza voci intellettuali che esprimano dissenso verso quanto di abominevole si dice e si scrive.
Come mai le divisioni tra vincitori e vinti ancora non sono state superate? Negli altri paesi succede lo stesso?
Quando vivevo negli Stati Uniti ho visto espellere una studentessa da Harvard per aver esposto la bandiera schiavista, una cosa inammissibile per un paese la cui storia inizia dopo la guerra di secessione e la lotta allo schiavismo; in Germania non c’è una stele con scritto sopra «Hitler» come a Roma c’è l’obelisco con inciso «Mussolini dux»; al Congresso americano non si parla mai di «nazismo», si dice sempre «fascismo» perché si ha ben chiaro che il suo inventore fu Mussolini e mai sarebbe permesso agli italiani di onorarlo, chi ha tentato di farlo è stato subito isolato. L’idea che finita una guerra si faccia la pace vale solo tra popoli diversi: la mafia, il fascismo, le leggi razziali rimangono sempre tali, non è che li sdoganiamo «perché è passato tanto tempo». Io sono amico di Giorgio Albertazzi (che aderì alla Repubblica di Salò ndr) perché lui ammette che «da giovani si commettono degli errori»: in mancanza di questa sua consapevolezza, la nostra amicizia non sarebbe stata possibile.
Perché, nonostante il nostro passato, «l’uomo solo al comando» sembra affascinare ancora gli italiani?
I cittadini non sono sciocchi, sono i giornalisti che quando intuiscono di essere in presenza di «grinta-polso-talento» com’è in questo caso (il riferimento è a Matteo Renzi ndr) si schierano subito dalla sua parte; non per nulla Ennio Flaiano diceva che «Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore». Episodio grottesco è stato quello della recentissima visita del premier negli Stati Uniti che è andata bene, ma in modo normale, mentre è stata descritta dai giornali italiani come una «super vittoria» cosa di cui non vi è traccia nei media americani. Si è trattato di un normale atto di governo ben condotto, raccontato come un trionfo: logico che poi il cittadino diventa un patito dell’«uomo solo al comando», autorevole, capace di prendere decisioni in fretta, anche se poi magari non si cura troppo della qualità delle stesse.
Che impressione Le fanno i terribili commenti che accompagnano in rete anche le notizie dell’ultima tragedia del Mediterraneo che ha coinvolto persone che scappano da guerre terribili e regimi odiosi? Basta la crisi a spiegare questa mancanza di empatia e compassione?
Sono incomprensibili, soprattutto se si considera che questi giovani africani scappano per sottrarsi dal diventare «materiali sprecabili in battaglia», scappano dalle guerre, non vogliono fare i soldati ma cercano una vita normale. In questi giorni si stanno consumando due delitti: il primo di permettere affermazioni peggio del negazionismo, il secondo l’invito a affondare le barche confondendo gli scafisti con i trafficanti di uomini. Durante la seconda guerra mondiale per un ebreo il costo per entrare in Svizzera era doppio: c’era il prezzo da pagare a chi organizzava la fuga e quello di dimostrare al governo di avere un conto in una loro banca, senza il quale non si era i benvenuti. Le persone respinte, che erano sempre seguite da soldati tedeschi o da bande nere cui i delatori li denunciavano per 5000 lire, venivamo immediatamente catturate e spedite nei lager. Gli scafisti sono alle dipendenze dei trafficanti e rischiano anch’essi la vita nei barconi, non sappiamo quanti ne siano morti, si può addirittura presumere che mettano la gente sotto coperta per questioni di equilibrio del «carico», perché che convenienza avrebbero nel far affondare la barca. Alcune di queste storie le sapremo solo in futuro. Potremmo analizzare meglio questi fatti, ma non lo facciamo per non ammettere le nostre colpe, come per esempio che la missione Mare nostrum sia stata chiusa perché costava troppo. Sull’affondare le barche sulle coste libiche: come facciamo a distinguerle da quelle dei pescatori? Vogliamo distruggere quel poco di economia locale rimasta? Poi, sarebbe un atto di guerra. Ieri sera in tv ho assistito al confronto tra Joe Formaggio, il sindaco anti-rom che dorme con il fucile, e Dijana Pavlovic, brava attrice e attivista di etnia rom, e sono rimasto sconvolto dagli applausi del pubblico al primo. È assurda tanta paura per 170mila rom in buona parte donne e bambini in un paese di 60 milioni di abitanti, appartenenti tra l’altro ad un popolo finito anch’esso nelle camere a gas e che dovrebbe ricordare il 25 aprile.
Sulla questione israelo-palestinese, anch’essa in una certa misura eredità del secondo conflitto mondiale, Lei si è sempre schierato dalla parte dello stato ebraico. Non pensa che anche i palestinesi abbiano le loro ragioni? Avrà mai fine questo conflitto? E la comunità internazionale non dovrebbe spingere per giungere ad un accordo evitando di parteggiare per gli uni o per gli altri?
Israele è isolato, dall’Europa che non ha una politica che lo riguardi, dalla Francia antisemita, dall’Italia di cui nessuna azienda ha lì una filiale, dall’Inghilterra che parla di boicottare le sue università, cosa ma i avvenuta né per quelle tedesche, né per quelle italiane negli anni precedenti la guerra quando già la persecuzione dei dissidenti era in atto e nota a tutti. Questo isolamento spinge Israele sempre più a destra e questo non è un bene. Amos Oz e David Grossman sostengono che l’ossessione di Israele per la sua potenza militare è dovuta alla mancanza di amici cui appoggiarsi. L’Italia è debole e vacua in modo pauroso, l’Inghilterra frivola, della Francia ho già detto, la Germania è sempre la Germania anche se va dato atto ad Angela Merkel di saper contrastare efficacemente qualunque rigurgito antisemita. I Palestinesi sono divisi in due e la parte che fa capo a Hamas purtroppo non vuole riconoscere lo stato ebraico. Nel 1948 due stati c’erano, piccoli e uguali, quella è stata una grande occasione persa perché adesso sicuramente, seppur tra tante difficoltà e vicissitudine, esisterebbero ancora. La verità è che a Gaza si vive molto male e c’è anche il sospetto che qualcuno abbia l’interesse, per ragioni politiche, a mantenere lo stato di fatto per cavalcare lo scontento della gente, che i paesi arabi non fanno nulla per risolvere la situazione e che i vicini, come Assad, sono molto pericolosi. La speranza sta in iniziative come l’Orchestra israelo-palestinese di Daniel Barenboim e Edward Said, un ebreo e un palestinese che hanno scoperto di aver molto in comune e molto da dirsi e su questo hanno costruito questa straordinaria esperienza musicale e culturale.
Quali gli argomenti per coinvolgere e sensibilizzare le giovani generazioni che, per loro fortuna, non conoscono la guerra?
È un momento brutto e triste per ricordare un momento glorioso, ma mettiamoci un po’ di forza e buona volontà perché non sia una Resistenza celebrata in una situazione dolorosa dettata dalla cultura leghista. I giovani non hanno colpe, sono i media che gestiscono l’informazione in modo sconsiderato e che non ricostruiscono cosa è accaduto per capire cosa succede oggi.
Bellissima intervista. Chissà che serva a qualcosa. Il 25 aprile dovremmo pensare a tutti i morti di TUTTI i totalitarismi
Bella intervista ad un personaggio che non ho mai amato. Poteva fare a meno di darsi alla politica. GIORNALISMO E POLITICA SONO INCOMPATIBILI