Garden City e Garbage City, le due facce del Cairo
Garden City, Il Cairo, sponda est del fiume Nilo. Dopo lunghe attività di bonifica svolte per tutto il corso del XIX secolo, sotto il regno di Mehmet Alì, la zona putrida e paludosa che divenne cento anni fa la scimmiottatura egiziana delle eleganti capitali europee, rimane ancora oggi, nonostante i rovinosi colpi di Stato, un prezioso quartiere dalle strade alberate, ove le uniche costruzioni abitate acquisiscono la forma di magnifiche ville. Percorrendo le sue vie circolari, tutte perfettamente custodite con pulizia cristallina, possiamo ammirare le sedi dell’ambasciata britannica, dell’ ambasciata statunitense e dell’ambasciata italiana. Sempre sulla sponda orientale del Nilo, scivolando verso sud, si giunge infine dinanzi allo splendore del monte Muqattam, luogo del potere militare e politico in età mamelucca e ottomana, dove da due secoli si erge la moschea di Mehmet Alì, ossia il sacro edificio ove è conservata la tomba marmorea del governatore che costruì l’Egitto moderno.
Ma è rivolgendo lo sguardo verso il basso, verso l’estesa pianura che circonda il monte, che si scorge l’ignoto, il curioso, il sorprendente: Manshiyat Naser, nella lingua dei colonizzatori inglesi, nota come Garbage City, La Città della Spazzatura.
I suoi 30 mila abitanti, nipoti, bisnipoti e trisnipoti dei wahiya, i migranti provenienti dall’oasi di Dakla, nel deserto occidentale, e dei contadini senza terra, provenienti dall’Alto Egitto, hanno fondato attraverso il lento accumulo di detriti un quartiere sfidante tutti i criteri del disegno architettonico di Mehmet Alì.
Questo è il luogo, infatti, dove la Grande Cairo, cresciuta nel culto della fede musulmana, ha confinato i suoi reietti, ovvero i cristiani copti, che dalla loro condizione sociale di rigettati, di rinnegati, di respinti hanno tratto anche il significato del proprio mestiere. Separati dal cuore commerciale della capitale egiziana, i rifiutati hanno deciso di dedicarsi alla caccia dei rifiuti. Tutto ciò che viene tralasciato, svuotato, mozzicato dagli opulenti residenti di Garden City e dei collaterali quartieri centrali, non viene riposto negli appositi cassetti urbani che deturpano le strade di qualsiasi città europea, inesistenti sul selciato della capitale egiziana, ma viene oculatamente raccolto da una parte degli uomini di Garbage City, i rifiutati fortunati, che, a bordo di carretti mossi da muli, si trasformano nei Zabbalin, i netturbini officiosi che si chinano ogni giorno, senza corrispettivo alcuno, per raccogliere le sudicerie dei ricchi.
Per gli Zabbalin il rifiuto non è privo in sé di qualsiasi utilità. Trarre dal poco il molto è il succo della loro vita lavorativa e casalinga, che è scandita interamente dalla primigenia fase di raccoglimento, dalla successiva fase di smistamento della spazzatura e dalla finale fase di vendita.
Il prodotto rifiutato, dunque, viene inizialmente riposto dagli uomini nei carri da viaggio, per poi essere analiticamente sviscerato dalle donne. L’organico è interamente affidato alle fauci del maiale di casa, animale disprezzato dai musulmani, ma lietamente ospitato sui tavoli delle famiglie di Garbage City, mentre carta, cartone, plastica, ferro, alluminio e residui tessili sono venduti ai mercanti di pezzi, che destineranno i materiali acquisiti ad un’ulteriore compravendita con le grandi multinazionali straniere, dai cui mezzi di produzione il vecchio diverrà interamente cosa nuova, pronta per essere fagocitata nuovamente da tutti i consumatori del globo, inclusi gli abitanti di Garden City. Accanto ai rinvenitori fortunati, però, emerge anche la disperazione di chi non partecipa alla divisione del ricavato, i copti non legati al sistema di nettezza urbana, che vivono sotto i Zabbalin, nell’abisso senza fondo della piramide sociale.
Grazie all’intensa attività di ripulitura dei Zabbalin la grande città egiziana riesce, così, a riciclare l’80 % del raccolto, risparmiando ai giardini profumati di Garden City il fetore della spazzatura, ma il quartiere e le dimore dei copti, fortunati e non fortunati, si riempiono di immondizia. Tra i rifiutati che vivono di rifiuti la diffusione di patologie respiratorie e infettive, quali l’asma, la bronchite cronica, l’epatite e le malattie della pelle, è la tappa di un inesorabile processo, che il governo egiziano non intende arrestare, giacché inevitabile sarebbe il decadimento del livello di sanità pubblica nella restante parte della capitale.
La Grande Cairo, dove il bello e il brutto, il pulito e lo sporco sono separati dalle spade della ricchezza e della povertà, coltiva intensamente lo sviluppo delle differenze sociali, il motore della sua attività produttiva e ci porta nuovamente a sospirare le parole del vecchio Talete: «Migliore è la città in cui non vi sono uomini né troppo ricchi, né troppo poveri».
Classe 2000, figlia del XXI secolo e delle sue contraddizioni. Ho conseguito la maturità presso il Liceo Classico Eschilo di Gela e frequento la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Trento