Tra musica, poesia e teatro. Intervista a Giulio Casale
Giulio Casale è un artista trevigiano a tutto tondo: a vent’anni ha fondato con alcuni amici un gruppo rock di grande successo, gli Estra, ma dal 2000 si è dedicato anche alla scrittura e al teatro; ora gira l’Italia con i suoi spettacoli che uniscono la musica alla recitazione e alla lettura.
Sei un artista poliedrico, hai iniziato come cantautore, poi ti sei avvicinato alla poesia, alla scrittura e al teatro. In che relazione sono queste forme d’arte? Ce n’è una che preferisci, o che senti che ti permette di esprimerti in modo più efficace?
Su la mia carta d’identità alla voce «professione» vedo stampata la parola «scrittore». Eppure non potrei, non riesco a non avvalermi della voce, il mio solo vero e proprio «strumento». Però è dannatamente esatta l’anagrafe: ogni cosa che ho pubblicato e/o messo in scena (in ogni caso «pubblico»: cioè sempre mi sputtano a gli occhi del prossimo) prevede la scrittura innanzitutto. Quel patire su la pagina bianca, imponendo a se stessi mille domande – e al limite anche censure, cancellature – preventive a quelle che nel migliore dei casi (quando l’opera incontri davvero la sensibilità altrui) ti verranno poste in seguito. Il teatro cantato ha infine risposto a una mia esigenza di completezza, se non di efficacia, esigenza mia ripeto, non certo del mercato artistico. Ma in fondo c’era già tutto, in radice, ai primi tempi con gli Estra: quei concerti rock in implicito avevano ben visibili dentro il teatro e la recitazione perfino, il dare corpo e gesto, e prima di tutto – rieccoci – ancora una volta la scrittura.
Ti sei laureato in filosofia teoretica. Quanto i tuoi studi e le tue letture in questo ambito hanno ispirato i tuoi lavori e i temi che sviluppi? C’è qualche pensatore in particolare che ti ha influenzato?
Fare i nomi sarebbe lungo e forse un tantino noioso. Ho voluto mattamente e sin da molto presto, già da prima del liceo classico per dire, indagare il pensiero umano, smanioso certo d’intuire forse banalmente perché questa che chiamiamo vita noi la si attraversi spesso con tanto dolore o fatica o anche solamente senso di solitudine, isolamento. Certo che i miei studi m’hanno informato: Severino e Galimberti incontrati e ascoltati ogni mattina a 20 anni appena compiuti possono stordirti beneficamente, con la loro pretesa di universalità. Ma poi sta a te. E lì comincia il casino. Le cose che m’hanno interessato maggiormente se ci penso un momento però non le ho affatto studiate a scuola, nessuna scuola. Le ho scoperte per caso. Rivalutando ogni volta di più il concetto di «caso». Se si eccettuano il Leopardi e Michelstaedter naturalmente, due giganti assoluti che devo al mio professore d’italiano e latino, quando ero ancora imberbe al liceo.
Nel tuo percorso artistico hai ripreso più volte De André e Gaber. Che importanza hanno avuto per te?
A Gaber (al suo teatro cantato lungo 30 anni e ai suoi ultimi due dischi in studio) ho dedicato un libro, e a quello rimando. Conserverò sempre molta gratitudine intellettuale, ben prima che artistica, nei confronti di lui e del suo coautore Sandro Luporini. Certa scomodità ti fa del bene, ti toglie cioè per tempo da ciò che è detta «massa». De André è semplicemente imprescindibile per un italiano che voglia provare a essere a sua volta cantautore, ma anche qui il mio debito è più contenutistico che formale: già da bambino era la «morale» (libertaria, laica, pacifista, pietosa sempre) che traboccava da le sue ballate a essermi tanto cara, molto ma molto oltre o persino al di qua di quella forma-canzone che in fondo per tanti versi era già antica allora, in quel momento storico. Ho osato parecchio nel re-arrangiare quel repertorio in vista dello spettacolo (cd in studio annesso) Le Cattive Strade, per togliergli quella patina ottocentesca starei per dire, con tutto il rispetto per il classico e il classicheggiante s’intende.
C’è qualche altro artista da cui trai ispirazione o con cui ti piacerebbe collaborare?
Luigi Tenco. Sarebbe come fare l’antagonista, la spalla in un film con James Dean. Siamo lì.
Oltre a ciò, da cosa trai ispirazione? Come nascono le tue idee?
E che ne so [ride]. In generale mi pare di occupare spazi che altri lasciano più o meno vuoti, costringendomi a cantare o a recitare poi cose che altri ben si guarderebbero dal pubblicare (lo sputtanarsi, appunto). Se qualcuno l’ha già detto, e specialmente se l’ha già detto bene, io taccio. E la mia vocazione (e dedizione) al silenzio è molto più marcata di quanto non sembri. Una canzone come La Mistificazione ad esempio è un assurdo, è un ossimoro rispetto a la funzione stessa de la canzonetta, ma a me procura un piccolo brivido cantarla così come suscitò meraviglia in me il fatto stesso di ritrovarmi a comporla, lungo il Naviglio Grande, qui a Milano. Ed è a quel brivido di stupore e sorpresa che poi resto fedele, costi quel che costi: anche l’esclusione dalla pubblica diffusione, al limite.
Secondo te, qual è il ruolo dell’artista nella società di oggi, così complessa e dominata dalla violenza verso gli uomini e la natura?
Qualcuno ha detto, anzi scritto, che «l’arte è magia liberata dalla menzogna di dover essere verità». Io mi sono sempre fidato della messa in scena (in quanto non-verità convenzionale), a patto che in scena riconoscessi un artista autentico s’intende, e anche su questo bisognerebbe capirsi, e non è niente facile. Se vuoi ogni canzone è una canzone d’amore (ogni monologo pure), se è in grado d’un tratto di sovvertire veramente e anche solo idealmente l’aria che tira, la sopraffazione in agguato, la volgarità, perfino il senso comune ormai. Il luogo comune è luogo di massacri; e non credo d’esagerare, non più.
Che progetti hai per il futuro?
Avere un presente? Sarebbe già tanto. Grazie.