Green New Deal: è già marcia indietro

Nella seconda metà del 2019 c’è stato un settore, quello dell’economia green, che ha iniziato a sperare in una spinta virtuosa da parte della politica. In particolare in Italia, tra le imponenti dichiarazioni della neoeletta Ursula Von Der Leyen e le promesse del nuovo Governo giallorosso, le premesse per dare un po’ di sollievo a una delle zone più inquinate d’Europa c’erano tutte.

La prima, nel discorso per ottenere la fiducia del Parlamento Europeo, aveva inserito nel programma un piano da 1000 miliardi di euro in dieci anni, con il 25% del bilancio europeo che doveva essere destinato a investimenti green. Così si erano calcolati 485 miliardi, a cui vanno sommati quelli derivanti dalla Banca Europei degli Investimenti, dal Fondo Europeo per gli Investimenti e dal fondo privato InvestEu. Giuseppe Conte, invece, si era presentato alla fiducia del suo secondo Governo con la proposta di elaborare un piano industriale, da sviluppare coinvolgendo le imprese, principalmente su un sistema di incentivi. La proposta aveva anche incontrato il plauso di Confindustria, che si era resa disponibile per la creazione di un percorso condiviso.

C’è da dire che il Presidente del Consiglio si affidava anche al fatto che, in un primo momento, la Presidente della Commissione Europea aveva aperto alla possibilità di non calcolare gli investimenti green nel rapporto deficit/Pil, che ogni Stato dell’UE ha il dovere di sottoporre proprio alla Commissione prima dell’approvazione definitiva. Questa possibilità è poi sfumata, secondo le decisioni della Presidente e del suo Vice Dombrovskis.

Sulla scia di queste decisioni, nell’ultimo mese sono iniziati i malumori. Qui facciamo una premessa: in una situazione del genere è normale che ci siano Paesi che mettono più soldi di quelli che ricevono essendo, appunto, un ambito Comunitario che dovrebbe avere l’obiettivo di far progredire chi è meno virtuoso. Germania e Polonia hanno il maggior numero di centrali a carbone e la quest’ultima in particolare ha dimostrato di saper gestire bene i fondi europei.

Le critiche più importanti al piano Europeo sono arrivate da Carlo Calenda, uno dei politici italiani meno critici sull’UE. Il fondatore di «Azione» si dice preoccupato perché, rispetto alle premesse, ad oggi si stanno mettendo sul piatto solo sette miliardi e mezzo di euro per tutta Europa, misura definita da lui stesso un bluff. Denuncia inoltre una mancanza di analisi che valutino gli impatti di queste misure che, in più, sarebbero derivanti da finanziamenti già dati e non entrerebbero direttamente nella trasformazione dell’industria, in particolare per quella dell’acciaio che, con i prezzi del gas più alti di quello americano, non avrebbe grossi vantaggi nella competizione con la Cina.

Per quanto riguarda la politica nazionale, invece, i più critici sono gli attivisti di Fridays For Future Italia, che denunciano l’investimento di 12 miliardi in fonti fossili, in particolare nel gas. C’è poi la questione degli incentivi alle piattaforme petrolifere: non a caso è il principale terreno di scontro che ha affondato sul nascere l’alleanza tra PD e Movimento 5 stelle nelle elezioni in Emilia Romagna. Nella prima versione della legge di bilancio, per il 2020 era prevista un’entrata corposa derivata dalla nuova Imu sulle piattaforme. Successivamente, invece, è sopraggiunta la riduzione dell’80% rispetto al loro valore contabile: il risultato è che, fra Stato e Enti locali, l’incasso previsto per quest’anno sarà di soli 6 milioni di euro. I dati odierni ci dicono quindi che, sia in Italia sia nell’UE, la rivoluzione green precedentemente annunciata è ancora molto lontana dall’essere attuata.