Il campo profughi di Moria sintomo dell’inadeguatezza delle politiche UE
Poco più di una settimana fa il campo profughi di Moria, nell’isola greca di Lesbo, andava in fiamme e una nuova crisi umanitaria aveva inizio nel campo che, ormai da diversi anni, rappresenta il primo approdo per i migranti provenienti dai Paesi dell’Africa occidentale. Contrariamente a quanto ci si potrebbe immaginare, il tasso di morti e feriti in seguito all’incendio è nullo. Ma il miracolo finisce qui: oggi la situazione a Moria è completamente fuori controllo. I 13mila profughi che normalmente risiedono qui in attesa che la propria domanda di asilo venga processata vivono senza ripari in una situazione, se possibile, ancora più precaria del solito. «Se possibile», perché nel sovraffollato campo di Moria le condizioni di vita dei richiedenti asilo hanno rivelato l’inadeguatezza delle politiche migratorie dell’Unione Europea da ormai troppo tempo.
In occasione del suo primo discorso sullo stato dell’Unione Europea, tenutosi il 16 settembre, Ursula von der Leyen ha annunciato l’abolizione del regolamento di Dublino e la sostituzione di questo con un nuovo insieme di strutture comuni che, in nome del principio di solidarietà, si occuperanno della gestione delle richieste di asilo e dei rimpatri. L’idea di base è infatti quella di superare il meccanismo del primo ingresso, che costringe i migranti a fare obbligatoriamente richiesta di asilo politico al primo Paese in cui approdano e che è considerata la principale causa, ad un livello micro, del sovraffollamento di campi profughi come quello di Moria e, ad un livello macro, dell’iniqua distribuzione dei flussi migratori tra i diversi Paesi comunitari.
Sebbene le proposte concrete ed ufficiali in merito alla revisione del sistema di asilo europeo arriveranno il 23 settembre insieme alla presentazione del nuovo Patto sull’immigrazione e sull’asilo, alcune indiscrezioni sono trapelate rivelando già alcune falle nel nuovo sistema di accoglienza. A oscurare l’auspicata prospettiva di solidarietà tra gli Stati, funzionale, tra le altre cose, a garantire un maggior sostegno ai Paesi dell’Europa meridionale nella gestione dei flussi migratori, ci saranno infatti una più forte politica dei rimpatri e ingenti fondi destinati all’agenzia europea per il controllo esterno delle frontiere. Nulla di nuovo o di diverso dal solito «aiutiamoli a casa loro». Se da un lato si promette una distribuzione proporzionale dei migranti all’interno dell’Unione, dall’altro lato, come a voler prevenire la necessità stessa della redistribuzione dei flussi in ingresso, si predispone una serie di ostacoli legali, realizzati attraverso il rafforzamento degli accordi di rimpatrio con i Paesi di origine e di transito, i cui effetti sono già visibili oggi in contesti quali quelli dei campi di detenzione libici.
Risulta evidente a questo punto come il problema non sia rappresentato dal regolamento di Dublino di turno, a cui non basta cambiare nome per abolirne le logiche. Per gestire i flussi migratori l’Unione deve essere in grado di osservare il problema da un punto di vista differente, di più ampio respiro, che riconosca i migranti come individui titolari degli stessi diritti e doveri di cui, sulla carta, si fa portavoce l’Unione piuttosto che come pedine di un gioco da tavola da spostare a proprio piacimento sul tabellone.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.