Il Fantasma della Rete

Il fantasma della rete
Kevin Mitnick e William Simon
Feltrinelli – 2014 – euro 20,00

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Di Cecilia Alfier

Ho aperto il libro di Kevin Mitnick, senza sapere chi fosse Kevin Mitnick. Avvertenza: non fate il mio stesso errore, documentatevi prima, su chi è l’autore e su qualche temine di informatica (che lui dà, ovviamente, per scontati), altrimenti metà delle parole non le capirete. Per esempio, assicuratevi almeno di avere ben chiaro il concento di ingegneria sociale e soprattutto la differenza fra hacker e cracker (il quale è mosso da intenti illegali e pure logiche di profitto). Ecco, ora potete aprire il libro. Il prologo mi ha ricordato l’inizio di Artemis Fowl, una saga ambientata in un altro mondo dove Artemis è un giovane quanto abile ladro che però “si converte” al bene. Ho pensato: questa non può essere una storia vera. Invece lo è, l’emozionante autobiografia di un uomo singolare e al tempo stesso stereotipato. All’inizio, infatti, Kevin sembra proprio il classico hacker, nerd; sapeva cambiare il proprio numero di telefono all’età in cui di solito si giocava a snake. E pensare che una persona normale va in tilt se non ricorda il codice Pin. Mitnick sembra incarnare lo stesso genio di Mark Zuckerberg, ma in modi molto diversi. Non connetteva le persone, le ingannava, ma senza cattiveria, solo per il gusto della sfida. Questo gusto della sfida percorre tutto il libro come una scarica di adrenalina, il lettore si chiede sempre: ce la farà Kevin questa volta? Si tratta quasi sempre di furti di password, numeri di telefono o di introdursi in sistemi informatici o di una delle sue più grandi scoperte: come rendere irrintracciabile il computer dal quale si sta lavorando. E qui c’è sempre il solito problema “morale” che mi assilla come lettrice: è legittimo parteggiare per “il cattivo”? Sì, se il cattivo scrive bene ed è intelligente come Mitnick, bisogna sempre distinguere fra parteggiare nella finzione letteraria o nella realtà. Nella finzione si può stare con chi ci pare senza problema. Lo stesso Mitnick, autore ed io narrante, raramente dà giudizi morali sul vecchio se stesso, piuttosto afferma con un certo autocompiacimento (scusate se non cito le parole esatte): “anche questa volta (anche dal carcere) avevo bleffato il sistema”. Trovo incredibile come il protagonista sia poi riuscito a utilizzare le sue abilità ingannatrici anche in positivo e con eguale soddisfazione. In un certo senso il libro si apre con una magia e, passando per delusioni, lampi di genio e arresti, si concluda con la parola “magia”. In un buon libro l’inizio e la fine devono in qualche modo comunicare, penso. Mi spiego meglio. Pare che la magia, proprio i trucchetti da mago, sbalordissero il piccolo Kevin, facendogli capire come alla gente, in realtà, piaccia essere ingannata. E io che pensavo che i cervelloni snobbassero queste cose “poco scientifiche”. E così, uno che per metà della vita ha campato di bugie, inventando una quantità di nomi falsi, ci racconta “la verità e nient’altro che la verità”, con una prosa secca, senza fronzoli, tipica di una mente matematica.
La vita di Mitnick è un’avventura, la sua maturazione un miracolo, considerate le violenze anche sessuali che ha subito e il carcere. Ne è uscito davvero bene. Ringrazio l’autore per avermi fatto conoscere questo mondo dove l’hackeraggio è trattato al pari una dipendenza, come fosse alcool o droga.
Mi è rimasto soprattutto un concetto. Chi hacker nasce, hacker muore, può solo decidere in che direzione andare.

VOTO        voti.fant