Ilaria Boemi: cosa vuol dire dare una notizia
Sono ormai 40 anni che si dibatte sul binomio giornalismo-obiettività, da quando – erano gli anni Settanta – L’Espresso di Eugenio Scalfari decise di scommettere sulla sostituzione di «obiettività» con «onestà». In questo modo cambiò radicalmente il patto fra giornalista e lettore: se prima era «Ti racconto esattamente cosa è avvenuto», da allora divenne «Ti racconto cosa è avvenuto secondo la mia sensibilità ma in modo onesto e libero da pregiudizi».
Sono passati tanti anni e, soprattutto per noi giovani lettori, cogliere nel concreto la differenza fra questi due «patti» è abbastanza difficile: entrambe le posizioni sono diventate molto più moderate e si sono quasi fuse l’una nell’altra.
Perdonateci questa piccola premessa, forse noiosa ma di certo utile per affrontare l’argomento di cui vogliamo parlarvi oggi: molti di voi conosceranno la vicenda di Ilaria Boemi, la sedicenne siciliana probabilmente morta a causa di una pastiglia di ecstasy. Una storia tragica, ma pur sempre una notizia. Per questo motivo è inevitabile (e ovvio) se ne trovi traccia sui giornali; ed è altrettanto ovvio che i cronisti cerchino di delineare un ritratto della ragazza. Il problema è come descriverla senza cadere nella trappola dello stereotipo.
Portiamo come esempio (ma non è certo l’unico) l’articolo di Alessandra Ziniti su La Repubblica e in particolare frase «Era particolarmente inquieta questa ragazzina di 16 anni con il viso sfigurato da cinque piercing, compreso una perla sulla lingua, il lobo dell’orecchio destro sfondato, i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino così come l’abbigliamento, jeans larghi, maglietta nera e scarpe da tennis». Dicevamo che è doveroso descrivere la protagonista di questa tragica storia, ma non notate anche voi qualche parola che dovrebbe fungere da «campanello d’allarme»? Il viso di Ilaria è sfigurato da 5 piercing, il lobo dell’orecchio destro è sfondato, i capelli rasati a darle un aspetto mascolino confermato dall’abbigliamento. Cosa traspare da queste parole se non pregiudizi? La scelta lessicale dice molto delle idee di chi scrive – chi scrive per professione dovrebbe saperlo –. Parole come «sfigurato», «sfondato», «aspetto mascolino» non danno forse un’immagine negativa della ragazza? Dare una notizia non può equivalere a dare un giudizio, e nemmeno descrivere la protagonista (tuttalpiù se morta tragicamente) deve significare lasciar trasparire il proprio giudizio su di lei. Da un quotidiano come Repubblica, da sempre antireazionario e progressista, ci si aspettava qualcosa di meglio: nel 2015 è impensabile istituire un collegamento fra i lobi sfondati e i piercing e la droga. Immaginiamo che questo non fosse l’obiettivo della cronista, però è palese che considerazioni come queste sono ciò che il pezzo lascia intendere.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia