Ilaria Cucchi a Padova: dietro la morte di Stefano
o scorso 15 marzo, l’Università di Padova ha avuto l’onore di accogliere come ospiti Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo per un incontro sulla necessità di introdurre il reato di tortura in Italia. Sono ormai quasi otto anni che si battono ogni giorno non solo al fine di ottenere giustizia per Stefano, morto in carcere in seguito a violenze perpetrate da alcuni agenti di polizia, ma che cercano anche, attraverso una singola storia, di giungere a una legge che finalmente penalizzi la tortura in Italia, troppo spesso utilizzata come mezzo di controllo all’interno delle carceri, e ancora più spesso ignorata dalle istituzioni.
Se da un lato la società civile affida alla giustizia il compito di punire i colpevoli di reati, dall’altro lato è necessario che la giustizia operi all’interno dei confini dei diritti umani.
La giustizia è difficile da raggiungere. La storia di Ilaria e del suo avvocato, come ci raccontano, è una storia di esasperazione, lotta e solitudine. È una storia di esasperazione perché spesso i processi durante tutti questi anni si appoggiavano sul nulla: a loro quasi non era consentito interrogare i medici, testimoni fondamentali all’interno del processo, a causa delle continue obiezioni da parte della difesa che venivano accolte, però dall’altro lato sembrava così facile trasformare la famiglia Cucchi stessa in colpevoli, screditandoli, dipingendoli come una famiglia poco amorevole soltanto sulla base di domande come «Dove avete lasciato la cagnetta di Stefano?»: l’80% dei processi, spiega Ilaria all’incontro, si basavano su queste futili domande.
È una storia di lotta, non solo contro i colpevoli della morte di Stefano che per anni sono riusciti a nascondersi dietro una finta giustizia, ma una lotta anche politica, per il riconoscimento di una legge che non si riesce a ottenere, una lotta psicologica, contro chi accusava l’avvocato Fabio Anselmo di essere in grado di vincere «soltanto i processi mediatici», e contro chi, anche attraverso i social media, continuava a screditare Ilaria e il suo impegno per una causa che dovrebbe interessare tutti. Ma soprattutto, ci dicono, è stata una storia di solitudine. Lasciati soli dalle Istituzioni, dalle forze politiche, da una parte dell’opinione pubblica, sono andati avanti combattendo contro tutti e contro tutto, e probabilmente questa è la parte più triste per un paese democratico, per uno stato di diritto: lasciare soli i propri cittadini.
Stefano Cucchi e il presunto «contrappasso». Il muro più difficile da rompere, probabilmente, è stato quello fondato sulla profonda convinzione di molti che Stefano Cucchi, avendo sbagliato, si meritava di pagare un prezzo. Questa è stata una solida tesi più volte portata avanti anche durante i processi, ed è anche forse l’aspetto che più fa rabbrividire. Perché ci fa capire come sia ancora oggi difficile far passare il concetto che pagare per un errore è giusto, ma questo non deve significare pagarlo con la propria vita. La stessa Ilaria, ci dice, aveva fiducia del carcere rieducativo, convinta che sarebbe servito per dare la possibilità a Stefano di rimediare. E invece quella fiducia è stata tradita, ed è forse la prima volta in questa storia in cui lo Stato ha perso.
È anche una questione emotiva. Al racconto dei processi durante questi anni, e della fatica di giungere finalmente al riconoscimento della morte di Stefano a causa di violenze, è seguita una testimonianza più personale di Ilaria Cucchi. Perché nonostante lei e la sua famiglia avessero deciso fin da subito di «lasciare le lacrime per dopo, e iniziare subito a battersi per una giusta causa», è stato ovviamente inevitabile percepire quel dolore che sa anche di ingiustizia e che, probabilmente per questo, brucia di più. L’aula in cui si è tenuto l’incontro è rimasta in un silenzio assordante durante tutto il racconto di Ilaria: il racconto di come per sei giorni non riuscivano ad avere notizie di Stefano all’interno del carcere, e di come la prima volta che qualcuno si è rivolto a loro è stato per dirgli che avrebbero fatto l’autopsia sul corpo di suo fratello. Il racconto dell’incredulità, del momento del riconoscimento in obitorio, delle urla dei genitori e del corpo di Stefano coperto da un lenzuolo fino al collo, quasi per nascondere le evidenze su un corpo che non era morto perché caduto dalla scale, o perché non aveva mangiato abbastanza. Ilaria Cucchi conclude: «Allora non sapevo niente mi mancavano tutti i pezzi per costruire il quadro completo. Probabilmente alcuni non li avrò mai».
E per quanto queste testimonianze possano essere dure alle orecchie di alcuni, e per quanto possano essere fastidiose alle orecchie di (purtroppo) ancora molti, è necessario che se ne parli. Ed è per questo che da anni Ilaria gira l’Italia per diffondere la sua testimonianza, anche all’inizio, quando le platee erano formate da tre o quattro persone. E siccome lei sente il dovere di parlarne, noi abbiamo il dovere di ascoltare.