Immigrati senza dignità. Amnesty: l’Italia usa la tortura
Capita spesso di sentire lamentele di italiani convinti che nel nostro paese i «profughi» godano di diversi vantaggi, vengano insomma «trattati meglio degli italiani». Non sono della stessa opinione i rappresentanti di Amnesty International che nel 2016 hanno visitato diversi centri di accoglienza, dove hanno potuto constatare che le autorità italiane si rendono ogni giorno colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani.
L’organizzazione internazionale ha raccolto le informazioni che ha ricavato in un rapporto pubblicato qualche settimana fa con il titolo Hotspot Italia, nel quale chiede all’Italia e all’Europa di creare le condizioni per una organizzazione degli sbarchi e della distribuzione dei nuovi arrivati che sia nel pieno rispetto dei loro diritti, della loro volontà e della loro dignità.
In base al nuovo approccio «Hotspot» promosso dal Consiglio Ue, i profughi, nel momento in cui sbarcano in Italia – dopo un viaggio via terra e via mare che ha messo in pericolo le loro vite, e durante il quale spesso hanno vissuto esperienze trumatiche come stupri e rapimenti –, vengono immediatamente sottoposti al rilevamento delle impronte digitali e a una breve intervista, a seguito della quale vengono trasferiti. È su questi tre momenti che si concentra l’indagine di Amnesty International.
Molti immigrati rifiutano di lasciare le proprie impronte digitali, per il timore – fondato – di incontrare in seguito problemi nel lasciare l’Italia. Per questo, spesso vengono costretti a farlo non solo con l’uso della forza, ma anche della violenza: non sono pochi i casi di percosse e maltrattamenti, che Amnesty International non esita a definire vera e propria tortura. Oltre a ciò, le autorità ricorrono alla detenzione arbitraria e alla negazione dell’assistenza medica, o addirittura di cibo e acqua per giorni pur di riuscire a ottenere la registrazione delle impronte.
Il sistema attualmente in vigore prevede che venga poi definito lo status dei profughi attraverso uno screening che permetta di distinguere gli immigrati irregolari dai rifugiati: questa operazione si riduce sostanzialmente a una breve intervista in cui si chiede la motivazione che ha spinto la persona in Italia. Purtroppo spesso le domande vengono poste in termini fuorvianti o in un momento in cui la persona è ancora stremata e in stato di shock a causa del viaggio. Questo porta a una selezione pressoché arbitraria, che tuttavia ha conseguenze importanti sul migrante, che semplicemente per aver risposto «Sì» alla domanda «Hai intenzione di lavorare qui in Italia?» rischia di essere rispedito immediatamente al paese d’origine.
Anche per quanto riguarda i trasferimenti le procedure che vengono messe in atto sono decisamente discutibili: quando non vengono accompagnati alla frontiera, i migranti respinti ricevono l’ordine di lasciare il paese entro qualche giorno, e vengono abbandonati, privi di qualsiasi mezzo di sussistenza, in una stazione o, in qualche caso, in zone rurali remote.
La colpa di questa situazione non è tuttavia da ascrivere solo all’Italia e alle autorità italiane, che in mancanza di regolamenti esaustivi sono costrette a interpretare ordini estremamente generici. L’approccio Hotspot, infatti, lungi dall’assicurare una più equa distribuzione tra gli stati europei delle responsabilità nella gestione dei migranti, ha determinato una maggiore pressione sui paesi di primo arrivo, come Italia e Grecia, mettendo a dura prova la loro capacità di assistere i nuovi arrivati in modo adeguato, mentre gli altri paesi investono risorse per proteggere i propri confini nazionali. Per questo Amnesty International rivolge un appello anche all’Europa, chiedendo di rivedere i regolamenti attualmente in vigore. Ma la misura più efficace è sicuramente quella che agisce alla radice del problema: aprire canali regolari e sicuri perché le persone in fuga dai propri paesi d’origine possano raggiungere in tutta sicurezza un luogo dove trovare protezione.