Mi chiamo Elena e ho sconfitto l’anoressia

Pubblichiamo la riflessione che ha scritto per noi Elena Ventura, la straordinaria ventenne che ha entusiasmato molti italiani con la forza con cui ha superato l’anoressia. Proprio di questo ci racconta oggi Elena, autrice di Ana Bahebak (Evolvoedizioni): della sua caduta, della sua rinascita e del percorso che ancora oggi, tre anni dopo il ricovero, sta intraprendendo. La ringraziamo di cuore per averci donato questi pensieri. Quando ho letto la sua storia su internet, ho subito pensato che anche noi, nel nostro piccolo, dovessimo fare qualcosa per diffonderla, così da ergerla a esempio per chi viva quanto Elena ha vissuto. Il fatto che abbia accettato di scrivere queste righe per noi, mi riempie di gioia e di soddisfazione. (Tito Borsa)

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Me lo ricordo come fosse ora, quel maledetto, terrificante giorno.
Erano passati più di due mesi dall’ultima volta in cui ci eravamo visti, proprio il mio diciassettesimo compleanno. Dopo 3 anni di amore travolgente, tormentato, poi nocivo e malsano, finalmente mi aveva dato il colpo di grazia.
Mi aveva spinta via, e abbandonata. Due mesi di puro dolore. Un pugnale che mi portavo conficcato nel petto, senza dirlo a nessuno. Lentamente, mi avvelenava.
Avevo perso tutto. Il vuoto lasciato da lui mi sbranava con le sue fauci dalla mattina alla sera. Non volevo. Più. Vivere.
Mi guardai allo specchio, e ricordo ancora quell’odio disumano salirmi al cervello. Un odio tale non l’avevo mai provato. E per la prima volta, lo sentii, guardando il mio riflesso.
Conficcai le unghie in quelle cosce sode e mi inondò quel senso di schifo, di sporco di tutta quella carne ripudiata. Usata.
Ecco, credo che da lì cominciò tutto.
Il mio cervello era arrivato al limite della sopportazione del dolore. E iniziò ad ammalarsi. Smettendo così di soffrire per amore, al sicuro, in quella gabbia dorata che sembrò inizialmente amica salvifica, poi assassina.
Da lì in poi tutto andò disfacendosi, tutti ne risentivano, tutti lo vedevano. Tranne me. Io non mi accorgevo di nulla: persa, drogata, strafatta di una sequenza di manie e regole ferree dirette al preciso fine di diventare il più sottile possibile.
Perché il numero che scendeva sulla bilancia era diventata la mia unica gioia. Che non era reale gioia, era sgomento ed euforia folle. Mi spaventavo, ma non riuscivo a fermarmi. Ogni etto che perdevo, non l’avrei mai più avuto indietro. E per fare ciò, dovevo mangiare di meno. Non dovevo mangiare, non me lo meritavo, era un tabù.
Il mio corpo, brutto, ossuto, stremato, si trascinava avanti grazie a una forza tale che solo la disperazione può alimentare. E la follia.
Mi allenavo 3 ore al giorno, 6 volte a settimana. Facevo nuoto sincronizzato, la mia passione. Ma ormai la malattia si era impossessata anche di quello. L’aveva trasformato in uno dei suoi tanti metodi per farmi del male. Feci i miei ultimi campionati italiani assoluti. Era il elenaventura12013. Pesavo 37 kg. Spiccava la mia figura tra le compagne. Ero il manifesto del dolore. Luglio. Il 3, era un giorno caldissimo.
Entrai nel reparto Dca dell’ospedale Niguarda di Milano. Dovevo fare delle visite, mi dissero, per iniziare il day hospital. Da lì, non uscii più. Per un mese intero rimasi sotto controllo, costretta all’immobilita. Il mio cuore batteva meno di 30 battiti al minuto. Non sarei arrivata alla fine dell’estate se non mi avessero attaccato un monitor cardiaco e non mi avessero iniettato in vena un potente farmaco per aumentare la frequenza dei battiti notturni. Odiai tutto e tutti.
Compii i miei 18 anni su quel letto, fra le flebo. Non sentivo niente, né amore, ne dolore, né gioia, niente. Non leggevo più. Non ascoltavo più la musica. Non c’ero più.
Rabbia furibonda. Solo quello. Quel mostro che si contorceva dentro di me e cercava di uccidermi nel nome della giustizia. Perché io ero un errore umano.
Poi, piano piano… Iniziai a scindere la vera Elena dalla malattia.
Non eravamo più un tutt’uno. Io c’ero ancora. Ma, con me, la malattia.
E da lì fu guerra. Dopo altri sei mesi decisi di uscire dall’ospedale.
Avevo bisogno di più, avevo bisogno di un sostegno psicologico molto intenso. Mi affidai all’associazione Jonas di Varese. Avevo perso praticamente tutti gli amici, la mia identità, il mio passato, me stessa. Dovevo ricominciare da zero. E avere coraggio, tanto coraggio.
Avevo paura, non ce l’avrei fatta. Non volevo, no, la malattia non voleva. Come posseduta.
Tre anni sono passati da quel primo giorno in cui strinsi la mano alla mia dottoressa sorridente. Il mio angelo biondo, la chiamo ora, tra me e me.
Tre anni di miglioramenti e ricadute rovinose. Tre anni di sudore, lacrime. Ma anche sorrisi. Perché ero una bambina appena nata e avevo tutto da riscoprire. Riassaggiare.
Così adesso sono qui, è la quarta volta che mi rialzo… e questa volta sono in piedi. Per davvero, per la prima volta da quel giorno di odio nello specchio.
elenaventuraNon sono guarita del tutto. Riparare l’anima e il cuore è un operazione delicatissima. Ci vuole tempo. Ma io non ho fretta. Perché mi godo ogni istante come se fosse il migliore della mia vita. Perché ora voglio vivere. Non sono guarita del tutto, ma ho già vinto.
Perché amo la vita, e un pochino, forse, anche me. La direzione è giusta. Non mollo. Ho già il trofeo in mano. Voglio solo arrivare in cima e alzarlo al cielo. Perché nonostante le sconfitte, i dolori e gli errori. Tutti siamo artefici di questo piccolo capolavoro che è la vita.
E come porto inciso sulla pelle, mi ripeto ogni giorno:
Abbi cura di te.

Elena Ventura