Anche se perde a ottobre, Renzi non deve andarsene

L’elaborazione grafica
è di Flavio Kampah Campagna

Matteo Renzi, dichiarando che in caso di insuccesso al referendum di ottobre lascerà la politica (nonostante la velata smentita intervistato da Beppe Severgnini per Corriere-Tv), è stato il primo e vero artefice della personalizzazione del ddl costituzionale su cui dovremo esprimerci. Questa scelta, senz’altro furba nel momento di massima popolarità del premier, si è tramutata in un pericoloso boomerang ora che il segretario del Pd sta affrontando, soprattutto dopo le elezioni amministrative di giugno e i rispettivi insuccessi (a parte Milano — per un pelo — e Bologna) che hanno evidenziato il disinnamoramento degli italiani verso il finto homo novus che avrebbe dovuto portare il paese fuori dalla burrasca.

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Chi scrive, lo ha dichiarato più volte, è speranzoso ma non fiducioso che questa deleteria riforma fallisca, ma — pur nutrendo un’eufemistica antipatia per Matteo Renzi — non vuole che lasci il suo posto nel fortunato caso in cui questo desiderio si avveri. In altre parole vogliamo che il premier perda il referendum ma che rimanga al suo posto. Questo non certo perché lo reputiamo una persona adatta alla carica che ricopre, né perché pensiamo che non ci sia alternativa, bensì perché in tutta semplicità il rapporto di causa-effetto che lega la permanenza di Renzi a palazzo Chigi all’esito del referendum è insensato.
In Italia il potere legislativo è affidato al parlamento che, anche nei casi in cui sia il governo a scrivere e/o a volere una legge, si prende la responsabilità di votarla. Il potere esecutivo, invece, non c’entra molto nella faccenda: Renzi non ha il diritto di personalizzare il referendum e di renderlo così qualcosa di terribilmente simile a un plebiscito. Per neutralizzare questa stramberia giuridica è giusto — nonché ovvio, in un paese normale — che Renzi rimanga al suo posto. Il caso di David Cameron, il primo ministro inglese dimessosi dopo aver perso il referendum — da lui promesso e promulgato — sulla cosiddetta Brexit, non dev’essere un termine di paragone: se da una parte condanniamo anche la sua scelta di levare le tende dopo aver messo la Gran Bretagna in una situazione di indubbia difficoltà e complicatezza, dall’altra riteniamo che i due casi siano così diversi da rendere sciocco e insensato ogni parallelo.
Matteo Renzi, a nostro modesto parere, non è la persona adatta a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio ma non può utilizzare la scusa del «non c’è scelta» per costringere gli italiani meno informati e meno fiduciosi in altre forze politiche a votare un provvedimento che cambierà in modo così radicale l’Italia delle istituzioni. Sembra il ragazzino che, dopo aver perso 5 a 0 la partitella al campetto, prende il pallone e se ne va a casa a giocare da solo o a trascorrere il pomeriggio alla Playstation. Le regole sono le regole e, anche se condividiamo un fine, non dobbiamo essere disposti a tutto per raggiungerlo.