La lettera: caro Borsa, perché ho scioperato l’8 marzo
Caro direttore,
ho letto con stupore e sgomento il suo articolo «Sciopero dell’8 marzo: l’inutilità dell’inutile», in cui lei critica pesantemente – pur facendo presente che si tratta della sua «discutibilissima» opinione, non condivisa da tutta la redazione – la manifestazione che ha invaso il mondo in occasione della giornata della Donna. Sì, ho provato stupore e sgomento, perché da lettrice affezionata non mi aspettavo un risvolto della sua imprevedibile personalità così medievalmente arretrato.
Ieri ho scioperato perché, insieme a tutte le altre donne che hanno manifestato al mio fianco, volevo mandare un messaggio a chi pensa di poterci ancora relegare a figure di secondo piano solo perché detentrici di vagina: la pacchia è finita!
Lei ha ragione a dire che «i “danneggiati”, ossia i datori di lavoro delle donne e in qualche caso anche l’utenza, non figurano fra i motivi dello sciopero», ma mi stupisce che sia arrivato a chiedersi «Perché mai questa manifestazione dovrebbe cambiare qualcosa?». Ieri non volevamo danneggiare nessuno, ma mostrare che i tempi sono cambiati perché oggi noi donne siamo consapevoli della nostra forza e di non essere più sole, abbandonate in balia di uomini-padroni. Questa consapevolezza è il nostro vanto e il nostro orgoglio, e ieri lo abbiamo mostrato.
Non intendo dilungarmi ulteriormente, però devo davvero confessarle che il suo fondo di ieri è stato davvero una grossa delusione per me che la credevo un vero uomo di sinistra, attento ai bisogni e alle esigenze anche delle parti ingiustamente considerate «deboli».
Mi conceda solo un ultimo appunto: il linguaggio misogino dev’essere combattuto e non c’è alcun diritto a essere sessisti, come non si può pretendere il diritto a offendere o a discriminare. Anche questa tesi estremamente maschilista non me la sarei mai aspettata da lei: non si tratta di un obiettivo «autonormativo e ginecentrico», bensì di una semplice questione di civiltà.
I miei più cordiali saluti
Marta
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