Interferire con il cervello per contrastare la dislessia
Una tecnica non invasiva di neuromodulazione potrebbe contribuire a migliorare le capacità di lettura delle persone affette da dislessia. La dislessia è il disturbo più comune di una famiglia di condizioni definite disturbi specifici dell’apprendimento. Il termine disturbi potrebbe disorientare, non si tratta di malattie, sono piuttosto modalità specifiche di funzionamento di alcuni specifici passaggi neuronali, in questo caso, di quelli che servono per decifrare le lettere scritte. Una tecnica che permette di intervenire in modo non invasivo su questi processi potrebbe migliorare le capacità di lettura nelle persone con dislessia: l’approccio è descritto in uno studio pubblicato su PLOS Biology.
La dislessia si manifesta a partire dalle prime esperienze scolastiche. I bambini che ne soffrono tendono a leggere con difficoltà e in modo frammentario, sostituendo i fonemi e invertendo o omettendo parole. Le cause della dislessia non sono del tutto note, ma potrebbero essere legate ad un diverso funzionamento a livello neurale di alcune aree cerebrali coinvolte nei processi di lettura. Un’ipotesi comune è che la dislessia sia un disturbo fonologico, cioè una difficoltà nel connettere le lettere ai suoni ad esse associati. Questa difficoltà di percezione dei fonemi potrebbe essere associata a cambiamenti nelle oscillazioni di alcuni schemi di attività neurale in una regione cerebrale incaricata di analizzare il suono, la corteccia uditiva sinistra: questa è stata l’ipotesi di lavoro da cui è partita Silvia Marchesotti, neuroscienziata dell’università di Ginevra e prima autrice dello studio: «Spesso la percezione dei fonemi era stata associata alla dislessia – spiega – ma i due fenomeni non erano stati fino ad ora legati da una relazione causale».
L’approccio del team ginevrino coordinato dalla professoressa Anne-lise Giraud prevede l’utilizzo della tACS (stimolazione transcranica con corrente alternata), una tecnica non invasiva che permette di interferire in modo sicuro con la naturale attività elettrica cerebrale, a frequenze scelte di volta in volta dall’operatore e senza causare effetti secondari. Gli scienziati hanno applicato la tACS a bassa intensità sulla corteccia uditiva sinistra di 15 adulti can dislessia e 15 lettori fluenti per un periodo di 20 minuti. Rimodulando i processi neurali in un certo modo, la percezione dei fonemi in chi era affetto da dislessia è in effetti, anche se transitoriamente, migliorata: «Abbiamo potuto osservare un miglioramento nella percezione dei fonemi (le più piccole unità del linguaggio che il cervello è in grado di trattare) immediatamente dopo i 20 minuti di stimolazione in corrente alternata. L’effetto non è più osservabile un’ora dopo la stimolazione», chiarisce Marchesotti. I benefici si sono verificati utilizzando onde a una frequenza specifica: «Intorno ai 30Hz – spiega la ricercatrice: le oscillazioni cerebrali in questa banda di frequenza sembrerebbero avere un ruolo chiave nella percezione dei fonemi e della dislessia». L’esperimento è stato compiuto su madrelingua francesi, ma poiché il deficit riscontrato riguarda la percezione dei fonemi, non dovrebbero esserci differenze con l’italiano (mentre potrebbero essercene con sistemi di scrittura sillabica, come il giapponese).
A migliorare in modo più evidente sono stati proprio coloro che mostravano i deficit di lettura più importanti, mentre in chi leggeva già agilmente, la tecnica ha creato un lieve e temporaneo peggioramento. «Una possibile analogia potrebbe essere con un pacemaker, che non sarebbe benefico per qualcuno che ha un ritmo cardiaco regolare», spiega Anne-Lise Giraud. La tACS è uno strumento promettente, sicuro e senza effetti secondari, ma il cui funzionamento ed efficacia sono ancora al vaglio della comunità scientifica – benché recenti pubblicazioni abbiano delucidato i meccanismi neurofisiologici della tecnica dopo anni di polemica accademica. Per confermare i benefici occorreranno ulteriori ricerche, ma la scoperta descritta potrebbe aprire strade interessanti per il trattamento del disturbo, scegliendo metodi meno invasivi.
«Una delle prossime tappe sarà testare un approccio più “naturale” e completamente non invasivo in bambini in età scolare – conclude Giraud – riteniamo che grazie alla plasticità cerebrale che caratterizza questa fascia di età, si potrebbero ottenere risultati molto più duraturi».
In questo caso, la tecnica prescelta sarebbe quella del neurofeedback, una tecnologia completamente non invasiva, che non prevede alcun tipo di stimolazione in corrente e utilizza una sorta di simulazione ludica al computer. «Una volta registrata l’attività cerebrale del soggetto con l’elettroencefalografia, la si analizzerebbe in tempo reale per “insegnare» all’individuo ad auto-regolare il proprio ritmo cerebrale al fine di ristabilire il ritmo più funzionale alla lettura corretta (quello che è possibile osservare in individui senza dislessia)».