Io, sex worker online, «vendo il mio tempo, non il mio corpo»
Il mondo dei lavoratori del sesso ha trovato nel digitale un forte alleato negli ultimi quindici anni. Con l’avvento del web alcune professioni legate alla produzione di contenuti per adulti hanno sperimentato nuove formule, mentre altre ancora si sono sviluppate, facendo nascere la categoria di sex worker online che non offrono prestazioni sessuali «fisiche» ai clienti, ma contenuti e servizi come video, foto, chat erotiche e molto altro.
Liberi professionisti del porno
Dapprima i siti porno e la rivoluzione di un intero mercato, poi i siti di videochat che dal 2010 hanno reso quello delle camgirl un vero e proprio lavoro; infine OnlyFans, che dal 2016 ha definitivamente aperto le porte a chiunque voglia fare di questi contenuti il proprio mestiere grazie alla quasi assenza di censura. Gli strumenti, insomma, ci sono. Quello che manca, però, è un’appropriata regolamentazione e, ancora prima, l’apertura mentale verso questo tipo di professione.
A far capire meglio la situazione dei sex worker online sono state due professioniste del campo che hanno fatto dei contenuti per adulti la loro principale fonte di reddito: RedPoison, pornoattrice e camgirl, e RedCherry, camgirl che ha creato un suo «intrattenimento erotico». Entrambe condividono l’idea di un porno che si allontani dall’industria mainstream, dal «porno fast-food», producendo contenuti da sé oppure tramite piccole produzioni.
Le testimonianze
Ciò che le ha spinte a iniziare un’attività in questo campo è stata una scelta personale e autonoma. RedPoison ha cominciato in coppia con il suo compagno, «poi la cosa si è spostata più su di me, perché è quello che voglio fare io». Per RedCherry, invece, tutto è partito come una ricerca di sé e si è infine tradotto in un lavoro: «Mi ci sono avvicinata per curiosità e necessità, avevo delle mancanze nella mia percezione di autoerotismo».
Lavoro, perché di questo si tratta: creare un servizio da vendere richiede tempo, sforzi, investimenti importanti anche di denaro. In certi casi c’è la necessità di affiancare a esso un’altra attività per mantenersi, come può accadere a molti professionisti freelance. «Per creare contenuti devi continuamente formarti, hai bisogno di spazi, attrezzatura, imparare a usare i programmi di editing», afferma RedCherry, mentre RedPoison ci dice che «all’inizio c’è da investire, quando ci si sposta non ci sono rimborsi; è una costruzione che va man mano con gli anni».
La percezione sociale del sex work
Tuttavia, la percezione comune su questo lavoro è ben lontana dalla realtà. Le due sex worker si sono sentite contestare la loro scelta: «Si pensa spesso “chissà perché lo fa, sicuramente c’è dietro qualcuno”. Mi hanno chiesto se lo faccio perché ho bisogno di soldi, dicendomi che volendo c’erano altri posti di lavoro», spiega RedPoison, a cui si unisce RedCherry dicendo che «si crede che chi fa porno lo faccia perché disperato, mi viene detto “sei sprecata”».
Seppur siano consapevoli delle conseguenze che questo può avere, sia RedPoison che RedCherry non nascondono il loro lavoro ai conoscenti. «Ho perso molte amicizie. Se una persona cambia opinione su di me per il lavoro che faccio, non prova dei veri sentimenti» ci dice RedPoison. Il suo partner, inoltre, deve nascondere il volto nei video insieme: «Lui fa il medico, se si venisse a sapere che la sua compagna fa le “sconcerie” su Internet rischierebbe di essere licenziato, anche se non sta facendo niente di male».
La scelta di un nome d’arte deriva da questo, dalla necessità di una protezione della propria privacy, non per vergogna. RedCherry ha citato casi di stalking in cui avere il proprio cognome nascosto non solo ha salvaguardato lei, ma anche la sua famiglia, sebbene dal vivo abbia avuto esperienze spiacevoli: «Se faccio porno su Internet non puoi pensare che faccia sesso con chiunque».
Come in Italia, così in Australia
I pregiudizi su questo lavoro non si limitano al nostro paese. BB Girl, sex worker australiana, ci ha parlato di come anche dall’altra parte del mondo la produzione di contenuti sia stigmatizzata e «vista come qualcosa di “sporco e disgustoso”». Il pensiero comune che persiste è quello per cui questi professionisti sono obbligati a vendere il loro corpo: «Non si riesce a capire che tutto ciò che facciamo è perché lo scegliamo e non vendiamo i nostri corpi, ma il nostro tempo».
Team WatchDogs: Giulia Girardello, Bianca Peri, Jennifer Riboli
Supervisione giornalistica: Tito Borsa
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