Israele: già a scuola si censura la Palestina
La Palestina nei libri scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, questo il titolo del libro di Nurit Peled-Elhanan (edizioni Gruppo Abele), scrittrice israeliana. Nurit-Peled Elhanan insegna Educazione del Linguaggio alla Facoltà di Scienze dell’Educazione Linguistica alla Hebrew University di Gerusalemme ed è cofondatrice del tribunale Russell per la Palestina. La sua opera, dice, ha come obiettivo quello di «svelare l’architettura della propaganda sionista che si propaga in moltissime discipline, reclutate per dare vita ad una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo». La sua è un’opera tradotta in più lingue, ma non in ebraico, perché «non avrei mai trovato un editore».
Il primo passo per affrontare la questione di come la Palestina sia raccontata nei libri di scuola ai bambini e ai ragazzi, è stato ovviamente quello di leggere e studiare i libri stessi da diversi punti di vista. La sensazione che ne è derivata è che ogni discorso scientifico contenuto nei libri era sempre collegato o rimandava sempre a discorsi di tipo razzista, a discorsi volti a insegnare le categorie, le differenze, e per questo motivo la scrittrice ha poi spostato la sua attenzione sul tema appunto del razzismo. La scelta di insegnare il razzismo attraverso i testi scolastici è sostanzialmente una decisione politica. I messaggi che passano sono molteplici, ma il punto centrale è sempre lo stesso: la Palestina è, di fatto, un problema, e molte sono le strategie utilizzate per dimostrarlo e soprattutto insegnarlo ai più giovani in modo naturale.
Nurid-Peled Elhanan scherza anche un po’ quando ci racconta che è molto comune che venga insegnato che tutto ciò che è arabo è negativo, tanto che per dire «Hai fatto un pessimo lavoro» si dice «Hai fatto un lavoro da arabo», ma allo stesso tempo tutti preferiscono vivere nelle case arabe, perché costruite meglio.
Ma forse non ci rendiamo conto fino in fondo che cosa significhi non essere riconosciuti, né dallo Stato né dai «vicini di casa». Significa, per esempio, che i palestinesi sono «per legge fuori dalla legge», che non hanno tribunali a cui rivolgersi in caso di violenze. Ma il punto della ricerca di Peled-Elhanan è: come spiegare tutto questo ai bambini?
I bambini israeliani non ricevono una cattiva educazione, soltanto che è sempre guidata da scelte politiche: paradossalmente si insegna ai più piccoli ad accettare le differenze e amare l’altro, ma accanto alla didascalia compare l’immagine di un bambino israeliano e uno francese che si abbracciano. Un bambino probabilmente neanche si accorge che c’è qualcuno, dietro al suo apprendimento e alla sua istruzione, che sta indirizzando la sua capacità di amare il prossimo soltanto a certe categorie di «diverso». Perché alcuni diversi vanno bene e altri invece no?
Ciò che da bambini ci viene insegnato come «naturale» rimarrà sempre parte di noi, e questo vale sia in senso positivo sia in senso negativo: se si insegna l’integrazione fin da subito ai più piccoli, il rispetto verso tutti, la ricchezza che nasce dalle differenze e non la discriminazione, per le bambine e i bambini sarà più facile diventare donne e uomini capaci di amare il prossimo senza distinzione. A questi bambini viene tolta la capacità di aprire gli occhi e pensare autonomamente, l’insegnamento dell’integrazione come capacità di convivere nella pace e soprattutto il diritto alla verità.
Ma la furbizia dell’editoria israeliana non si ferma qui. Nei libri infatti non si fa mai riferimento al «dover odiare» i palestinesi; si compie una scelta molto più radicale, subdola e netta: semplicemente la narrativa israeliana non include il popolo palestinese. Nei libri di storia si parla dei Greci, dei Romani, ma si saltano i secoli di storia e cultura araba; nei libri di geografia si spiega come Gerusalemme sia sempre stata la capitale dello Stato di Israele «tranne per i 2000 anni in cui non eravamo qui».
Ma questa propaganda antipalestinese ha preso di mira anche la fotografia: i palestinesi sono sempre raffigurati come vigliacchi, terroristi, anche fisicamente meno forti degli uomini israeliani. Quello della Palestina è presentato come un problema demografico e ambientale: foto qualsiasi di strade allagate vengono diffuse con la descrizione di come il popolo palestinese sia abituato a vivere nel degrado perché «la loro natura è così». Il popolo stesso viene rappresentato come primitivo: girano foto di comparazione tra villaggi ebraici e arabi, gli uni con un tipo di agricoltura all’avanguardia, gli altri con un bue che tira l’aratro, gli uni con case singole, separate e con «tetti spioventi per ripararsi dalla neve», perché così fanno in Europa, ed Europa significa avanguardia, successo e futuro, gli altri con case ammucchiate e tetti adatti a raccogliere l’acqua piovana.
In Europa, dice Peled-Elhanan, i bambini e i ragazzi vengono istruiti principalmente per diventare dei «business-men», persone che in linea di massima saranno in grado in futuro di contribuire alla vita economica del loro paese; in Israele ai bambini viene insegnato come essere perfetti cittadini dello stato sionista e bravi soldati. Come può esserci anche solo un barlume di speranza di cambiamento per un paese e un popolo al quale la possibilità di cambiamento neanche viene mai insegnata?
Dopo i libri e le fotografie è la volta dei piani per eliminare geograficamente i territori palestinesi anche dalle cartine e dalle mappe: spesso il West Bank è dipinto come una parte di Israele su cui non si hanno dati, territori che comprendono le città di Nazareth e Hebron. Di occupazione non se ne parla in nessun luogo e per nessun motivo, semplicemente perché non esiste nessuna occupazione.
Ci sono poi quei libri, e dietro a loro quei coraggiosi scrittori prima ed editori poi, che tentano un approccio più veritiero, provando a scrivere le cose come stanno, non cedendo a quell’imbroglio che la politica sionista serve ai bambini. Ma quasi sempre queste opere vengono intercettate da chi non ci sta, e censurate. Curiosa la storia di un libro che spiegava come lo Stato di Israele sia nato in seguito ai lavori svolti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1947, e che venne censurato perché non insegnava che Israele è stato fondato perché è la terra originaria del popolo ebraico e quella promessa loro da Dio. Ancora, un libro in cui veniva spiegata la strage di Altalena, l’episodio durante il quale una nave carica di armi venne fatta affondare dall’esercito israeliano su ordine di David Ben Gurion, venne modificato facendo passare per colpevole Yitzhak Rabin. I libri che parlano di «pulizia etnica» vengono modificati con l’espressione «espulsione organizzata».
Mi viene da pensare a Jahel, una ragazza conosciuta durante un viaggio in Israele, e alla sua famiglia, che ci ha accolto in casa, ci ha raccontato tutto quello che volevamo sapere sul loro paese e che con amarezza ci parlava di quanto fossero stufi di vivere sotto un governo che insegnava a discriminare. Una famiglia, ebraica, che sogna veramente un paese dove vivere in pace. In qualsiasi Stato, la maggioranza che governa non rispecchia mai l’intera popolazione.