Juno su Giove: la portata del traguardo
Ci sono voluti 5 anni e 3 miliardi di chilometri per riuscire a raggiungere Giove, un pianeta che è sempre stato un grande enigma per gli studiosi sin dai tempi di Galileo Galilei. La prima osservazione, infatti, risale a quando l’astronomo pisano, dopo aver affinato un nuovo strumento di osservazione, il telescopio, comincia a osservare e a decriptare per la prima volta quel grande mistero che è il cosmo. Galileo, nel suo primo sguardo verso il cielo, aveva visto degli «astri», invisibili a occhio nudo, vicino a Giove, e accortosi dell’enorme rilevanza della scoperta, decise di chiamarli «astri medicei» in onore di Cosimo II De’ Medici. I quattro satelliti furono ribattezzati in seguito con i nomi mitologici di Io, Europa, Callisto e Ganimede.
Ma cosa significa che si è riusciti a raggiungere Giove? Nella mattinata del 5 luglio, alle 5:53 ora italiana, è arrivata la conferma dell’arrivo nell’orbita del gigante gassoso della sonda spaziale Juno, che avrà il compito di studiare «da vicino» l’atmosfera, i campi gravitazionali e magnetici e la struttura interna del pianeta.
L’evento ha innescato grande euforia al Centro Nasa Jet Propulsion Laboratory, che segue e gestisce le operazioni della sonda dalla Terra. Tale sentimento è più che comprensibile se si pensa che la sonda vale la bellezza di 1,1 miliardi di dollari, ovvero 990 milioni di euro, e che tutti i soldi investiti sarebbero andati persi se la sonda non avesse intercettato correttamente l’orbita. Infatti i tecnici di Pasadena, sede del laboratorio, avevano a disposizione solamente un tentativo per gestire il rischioso aggancio con l’orbita di Giove. La sonda, alimentata da tre pannelli solari, ha aumentato la propria velocità di rotazione da due a cinque giri al minuto per raggiungere l’assetto più stabile e riuscire ad entrare nell’orbita corretta. Il problema più spinoso dell’intera operazione è che, durante il posizionamento, la sonda non avrebbe potuto usufruire dell’energia solare perché i pannelli non sarebbero stati perfettamente allineati verso il sole, e quindi sarebbe stato necessario usare le batterie. Per esempio se il motore non si fosse acceso, o avesse funzionato meno dei venti minuti previsti per la spinta, la sonda sarebbe entrata in un’orbita eliocentrica, e non sarebbe stato più possibile studiare il pianeta.
Tutto ciò rende comprensibile l’apprensione che ha catturato gli scienziati mentre attendevano per ben 48 interminabili minuti il segnale di conferma di arrivo nell’orbita inviato dalla sonda a 860 milioni di chilometri di distanza.
La gioia che ha seguito questa missione ha raggiunto anche i centri di ricerca italiani, che possono vantare la realizzazione di due degli 11 apparati scientifici a bordo di Juno.
Nel cuore della sonda è situato Jiram, Jovian Infrared Auroral Mapper, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana, realizzato da Leonardo-Finmeccanica e supervisionato dall’Istituto di Astrofisica e Paleontologia Spaziale dell’Inaf. Questo strumento è uno spettrometro che avrà il compito di studiare gli strati superiori dell’atmosfera di Giove, rilevando l’eventuale presenza di metano, vapore acqueo, ammoniaca e fosfina, fornendo anche immagini delle aurore.
L’altro componente di matrice italiana all’interno di Juno è KaT, Ka-Band Translator, strumento di radioscienza, realizzato dall’Università La Sapienza di Roma e da Thales Alenia Space Italia.
Italiano è anche il sensore d’assetto Autonomus Star Tracker, realizzato da Leonardo-Finmeccanica, che ha avuto l’arduo compito di guidare la sonda verso Giove e far mantenere a Juno la traiettoria corretta.
Questo avvenimento è di rilevante importanza perché ora, avremo l’occasione di studiare a fondo il primo pianeta scoperto da Galileo, analizzarne l’atmosfera, la composizione e, soprattutto, raccogliere finalmente la prova della presenza di un nucleo solido nel pianeta. Forse sarà grazie a Juno che finalmente potremo risolvere uno dei grandi punti di domanda dell’astronomia e, forse, sarà anche grazie all’ingegno italiano se il caos del cosmo riserberà qualche enigma in meno per l’uomo.
Laureata all’Università di Padova Ingegneria Chimica e dei Materiali e laureata magistrale in Ingegneria Chimica (Susteinable Technologies and Biotechnologies for Energy and Materials) presso l’Almamater Studiorum Università di Bologna.
Scrivo per La Voce che Stecca dal 16 luglio 2015 e su queste pagine mi occupo di cultura, musica e sport, ma soprattutto di scienza, la mia passione.