La cittadinanza non è più legata al concetto di razza, cari Pillon e compagnia

Da quando, dopo le dimissioni di Zingaretti, Enrico Letta ha lasciato Parigi per prendere le redini del Partito Democratico, l’opinione pubblica italiana è stata costretta a riaffrontare questioni che, considerati i vari governi succedutisi e le catastrofi globali intervenute nel frattempo, sembravano essere state oramai relegate al passato. Invece così non è stato e con Letta si è tornato a parlare di estensione del diritto di voto ai sedicenni e di ius soli, argomenti su cui l’intero Paese  si diletta da tempo a discutere. Ad alcune condizioni però: che i diretti interessati non vengano mai interpellati e che, con una certa regolarità, si evochino scenari apocalittici in cui il mondo è governato da infanti e il popolo è ridotto ad una massa informe e multicolore.

Tra i primi a manifestare il proprio sostegno a questo tipo di narrazioni è stato il senatore leghista Simone Pillon che, all’indomani della proposta di Letta, ha esordito sulla sua pagina Facebook scrivendo: «Vorrei dire al neosegretario Letta che ogni volta che un politico italiano parla di ius soli, centinaia di ragazze nei villaggi africani vengono convinte dai trafficanti di uomini a partire per il nostro Paese […] inseguendo fatue illusioni». Stando alle dichiarazioni di Pillon ci sarebbe insomma da credere che in Africa gli individui pianifichino la propria esistenza in funzione del dibattito politico in corso in Italia e che sia dunque questo, non l’instabilità politica o le precarie condizioni di vita che esperiscono quotidianamente, a determinare la scelta di un viaggio infernale verso le sponde nostrane. Scherzi a parte, le dichiarazioni di Pillon sono l’ennesima conferma che il dibattito sullo ius soli in Italia è impostato su una retorica che, troppo spesso, ignora l’altro in nome della difesa di un anacronistico concetto di popolo.

Durante il XIX secolo, quando sono nati insieme il concetto di Stato-nazione e quello di popolo, quest’ultimo era associato al concetto di razza, ad un insieme di individui che non solo condividevano una storia, una lingua e tradizioni comuni ma anche, e soprattutto, l’appartenenza ad una razza che il pensiero evoluzionista aveva collocato ad uno specifico gradino della gerarchia sociale. In quest’ottica un europeo era per sua natura più evoluto e civilizzato, mentre il suo alter ego nel continente africano veniva ridotto allo status di barbaro. Dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale si è cercato in tutti i modi di cancellare, per quanto possibile, il termine razza dal vocabolario istituzionale. È evidente tuttavia che, se da un punto di vista formale fare un tentativo in questa direzione non è troppo dispendioso, per eliminarlo dal bagaglio culturale di alcuni gli sforzi necessari sono di ben altra entità.

Se l’estensione della cittadinanza a tutti i nati sul suolo italiano risulta a Pillon e a molti altri un attentato alle fondamenta dell’italianità e se la discussione di una riforma della legge sulla cittadinanza ce la trasciniamo da così tanto tempo evidentemente gli sforzi fatti finora per slegare il concetto di popolo da quello di razza non sono bastati. Ad oggi in Italia la cittadinanza è riconosciuta nella maggioranza dei casi per applicazione del principio di ius sanguinis a chi possa dichiarare che nelle vene gli scorra, in una qualche percentuale, sangue italiano, a chi, insomma, possa rivendicare un’appartenenza biologica al popolo italiano, in modo deterministico, prima ancora di aver proferito parola. Tuttavia, se l’intento di Pillon e dei suoi sostenitori è quello di preservare l’identità del popolo italiano, forse è necessario ricordare loro che anche un bambino nato da genitori stranieri in Italia crescerà, come i suoi coetanei di discendenza italiana, a pasta al pomodoro, pizza e infinite discussioni sullo ius soli.