La Corea del nord è uno Stato confuciano?
Studiosi come Maurizio Riotto e Bruce Cumings, quando descrivono il Juché come un misto di confucianesimo e marxismo, parlano con la massima serietà scientifica e hanno in mente concetti ben precisi. Tuttavia la loro definizione, una volta entrata nel lessico delle enciclopedie online, viene citata a piene mani da giornalisti che non hanno idea della sua storia intellettuale, e che dunque la ripetono in ogni articolo divulgativo senza aggiungere ulteriori specificazioni oppure inventandosele di sana pianta.
Da qui nasce la fallace impressione che il retaggio confuciano in Corea del nord consista nella solita «successione dinastica» o addirittura nella mitica «divisione della società in caste su base ereditaria», e questa impressione serve a motivare le accuse di tradimento e adulterazione del socialismo mosse ai dirigenti nordcoreani da alcuni individui che nulla sanno né confucianesimo né di socialismo. Per individuare il vero apporto del pensiero di Confucio al socialismo coreano occorre rifarsi alla seguente osservazione del Presidente Kim Il Sung, citata in Kim Myong Suk, Echi del XX secolo, Edizioni in lingue estere, Pyongyang 2014, p. 81:
Noi non giudichiamo negativamente la dottrina confuciana nella sua interezza. Non tolleriamo le vedute estremiste che contrappongono il confucianesimo alle idee socialiste e ne affermano l’incompatibilità con l’etica socialista. Noi contestiamo la natura antipopolare della dottrina confuciana che giustifica il sistema sociale e lo Stato feudale e costringe il popolo alla resistenza passiva e alla cieca sottomissione. Non abbiamo mai negato la necessità delle basi etiche umane prescritte dal confucianesimo nei suoi tre princìpi fondamentali e dalle cinque discipline morali nei rapporti umani.
I tre princìpi fondamentali del confucianesimo sono: Pietà filiale o Devozione (xiao), Umanità o Benevolenza (ren) e Moralità (li) intesa come rispetto dei costumi ancestrali. Le sue cinque discipline morali sono: Umanità o Benevolenza (ren), Giustizia (yi), Moralità (li), Saggezza (zhi) e Sincerità (xin). Già dal semplice elenco è chiaro che si tratta di un sistema di regole di condotta mirate a garantire l’armonia della collettività umana.
Ma perché tenere in vita l’etica tradizionale, potrebbe chiedere un qualunque marxista, se il socialismo elimina le divisioni di classe e assicura di per sé l’equilibrio? Proprio qui sta l’innovazione teorica coreana: nella presa d’atto dell’essenziale disuguaglianza fra gli uomini, che si estende ben oltre la sfera economica e che, se non viene tenuta in debito conto, finisce per sfociare in sempre nuove contraddizioni sociali. Questa consapevolezza si ritrova presso tutti i grandi pensatori reazionari, da Confucio e Platone a Nietzsche e Gómez Dávila, ma è assai rara nelle ideologie della sinistra occidentale, che muovono dal presupposto dell’originaria uguaglianza di tutti gli uomini, scambiando il proprio ideale con la realtà, e ascrivono il male a cause di ordine esclusivamente socio-economico.
Confucio partiva invece dalla famiglia, dal rapporto fra padre e figlio, per spiegare l’asimmetria immanente a tutte le relazioni umane: donde il principio della pietà filiale, che Kim Il Sung estende a tutta la nazione intesa come un’unica grande famiglia, e la necessità di un insieme di norme morali e di tradizioni che tengano sotto controllo le disuguaglianze e le rendano funzionali alla civiltà socialista, eliminando le gerarchie di classe – sorgente di caos ed ingiustizia – e rispettando le gerarchie ideologiche e spirituali che temprano ed elevano l’essere umano, al di là di ogni logica liberale e consumistica.
Ciò implica un ruolo attivo della comunità nell’orientamento della vita degli individui, ed è proprio questo che la sinistra occidentale non accetta. La sua ostilità al socialismo coreano non dipende da dinastie e sistemi castali inesistenti, bensì dal suo rifiuto di questo principio basilare di ogni etica collettivista. Chi è dunque più lontano dagli ideali socialisti?