La disattivazione dell’articolo 4 della Costituzione
L’articolo 4 è uno dei principi più importanti della nostra Costituzione, insieme alla sovranità popolare e al principio di uguaglianza sostanziale. Esiste un legame fortissimo tra il diritto al lavoro sancito dall’articolo 4 e gli altri due capisaldi costituzionali, in quanto essi vanno a braccetto e non potrebbe che essere altrimenti.
«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». Un passaggio che fu ampiamente discusso in Costituente perché, a differenza dei diritti civili, quindi formali, il diritto al lavoro entra nell’insieme diritti sociali, dunque aventi un costo. Lo esprime in maniera perfetta il Padre Costituente Costantino Mortati, che definiva i diritti sociali come diritti a prestazione, dunque promuovibili solo nel momento in cui lo Stato decida di assumersi l’onere dell’attuazione. Sempre Mortati, in una sua opera successiva, spiegava come alcuni diritti «essendo un imperativo costituzionale, assumono carattere obbligatorio». Ciò significa che lo Stato non può sottrarsi dall’assicurare ai propri cittadini questa tipologia di diritti.
Ciò non significa che l’enunciazione costituzionale del diritto a lavoro sia da intendere come un contratto privato, dove a un diritto corrisponde un obbligo. Tale enunciazione assume carattere programmatico di politica economica. Lo capiamo nel passaggio successivo dell’articolo 4, dove si dice che la Repubblica «promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Spetta dunque alla Repubblica creare le condizioni sociali ed economiche affinché l’obiettivo posto dai Costituenti – il diritto a lavoro – si renda effettivamente tangibile nella vita dei propri cittadini.
Ma è effettivamente così? Ebbene, ciò corrisponde a verità fino al momento in cui i principi costituzionali hanno – anche politicamente – scandito l’azione dei governi e dei parlamenti che si sono succeduti nel tempo. La Prima Repubblica ha creato le condizioni affinché tale diritto potesse effettivamente affermarsi. Il Mezzogiorno dal 1951 al 1971 ebbe una crescita economica superiore al nord, anche grazie all’impresa pubblica portata dallo Stato nelle zone depresse a creare le condizioni per la crescita dell’occupazione e dell’indotto collegato alle imprese pubbliche sorte nei territori.
Poi venne il Trattato di Maastricht, la concorrenza, il liberismo, il mantra della bassa inflazione sancito al suo interno e scopo primario della Banca Centrale Europea, che fissa nel suo Statuto il perseguimento di un tasso d’inflazione pari al 2%. Solo in subordine al raggiungimento/mantenimento di tale livello d’inflazione si pensa ai livelli occupazionali. La Commissione Europea fissa un tasso d’inflazione per non generare una spirale inflattiva, che per l’Italia si aggira intorno al 10%: un livello inconcepibile per la Costituente. Ciò è chiaramente in contrasto con l’articolo 4 della Costituzione, in quanto, dovendo rispettare tale imposizione, la Repubblica non può promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro.
Pensate a delle politiche di pieno impiego attuate dallo Stato, ciò avrebbe un costo in termini di bilancio, quindi si scontrerebbe con i parametri europei sul deficit e sul debito, oltre a generare una crescita dell’inflazione.
Da qualsiasi posizione si parta, si può riscontrare un contrasto tra Costituzione e Trattati Europei. Come affermava Von Hayek: «Dobbiamo accettare il fatto che la libertà individuale è incompatibile con la giustizia sociale». Come se per libertà individuale s’intendesse la mera enunciazione dell’uguaglianza formale e non l’affermazione dell’uguaglianza sostanziale.
Simone, ventottenne sardo, ha vagato in giovanissima età per il Piemonte, per poi far ritorno nell’isola che lo richiamava. Ama scrivere su tematiche politiche ed economiche. Legge per limitare la sua ignoranza.