La fine dell’era Abe: luci, ombre, continuità

Poco avvezzo ai fatti asiatici, nonché distratto da altre dinamiche internazionali, l’Occidente ha decisamente accolto in sordina una notizia proveniente dal più occidentale tra i Paesi orientali. Lo scorso 28 agosto, a causa di problemi di salute, il premier nipponico Shinzo Abe ha ufficialmente annunciato le dimissioni, al termine di otto anni consecutivi alla guida del governo, suddivisi in quattro mandati. Sommando il periodo 2006/2007, interrotto per lo stesso motivo, gli anni in carica ammontano a dieci, più che sufficienti per imprimere un’impronta profonda sulla politica e sulla società giapponese e per operare azioni variegate ed alle volte controverse. Shinzo Abe è allo stesso tempo il primo ministro più longevo e il più giovane ad aver conseguito la carica (52 anni).

Politico di stirpe, Shinzo Abe rappresenta l’ala destra del Partito Liberal Democratico (LPD) fin dal lontano 1993, diventandone espressione totale dei valori politici, nazionalisti e conservatori. Ad esempio, rivelando un chiaro intento militarista, tenta inizialmente di istituire un esercito ufficiale, formalmente bandito dalla costituzione, ma sostanzialmente attivo sotto il titolo di forze di autodifesa. Il tentativo diviene poi un concetto giuridico inserito nella carta stessa, l’autodifesa collettiva in sostegno agli alleati, ovvero l’autorizzazione ad operare in missioni militari anche in assenza di minaccia diretta per il Giappone. Allo stesso tempo, però, risulta essere il capo di governo più attivo in politica estera, viaggiando assiduamente per rinsaldare alleanze o partnership strategiche dal punto di vista commerciale, specialmente con gli Stati Uniti, l’Australia, la Nuova Zelanda e le Tigri Asiatiche. Nonostante durante i primi tempi del suo insediamento auspicasse una distensione dei rapporti con Cina e Korea, il sorpasso economico subito dal vicino gigante e la successiva minaccia bellica di Kim Jong Un hanno portato negli anni gli esecutivi Abe a virare su posizioni ben meno diplomatiche. Ultimo fatto in questo senso, vissuto dai vicini come provocazione, è la recente visita al santuario Yasukuni per ufficializzare le dimissioni, presso il quale si venerano le anime dei servitori militari del Giappone, tra cui alcuni condannati per crimini di guerra a causa di azioni svolte proprio nei territori di Cina e Korea.

In relazione alla profonda azione di politica estera a scopo commerciale, si posiziona anche la massiccia manovra di politica economica keynesiana denominata Abenomics, basata sulla svalutazione dello yen, l’aumento della spesa pubblica e importanti investimenti nel settore privato, la quale, con alterne fortune e qualche punto critico, ha mantenuto il Paese competetivo durante il decennio, al netto di alcuni problemi strutturali, come il crollo delle nascite, nei confronti dei quali il governo intende operare importanti riforme. In virtù di questo obiettivo, nonché della volontà di creare una sorta di NATO asiatica in funzione anticinese (che renderebbe spendibile nella pratica il concetto di autodifesa collettiva), la successione sarà all’insegna della continuità: Yoshihide Suga, ex capo di Gabinetto, è infatti asceso alla leadership di LPD, incarico che in Giappone solitamente porta automaticamente alla nomina a primo ministro.

Comunque si giudichino le sue azioni politiche, il tramonto dell’era Abe segna un punto significativo nello scenario politico nipponico, regionale e, se inserito nel quadro della crescente rivalità sino-statunitense, anche in quello geopolitico.