La guerra digitale degli Stati Uniti: Trump contro i giganti della rete
Seppur mediticamente in secondo piano a causa delle proteste sociali, delle imminenti elezioni e dell’emergenza COVID-19, da qualche mese gli USA stanno portando avanti un’accurata e importante revisione dell’architettura dei servizi digitali, segmento di mercato assai influente, ricco, in costante espansione e caratterizzato da una sostanziale anarchia legislativa fino a pochissimo tempo fa.
Dopo l’audizione di Zuckerberg al Senato, che ha sancito la responsabilità delle piattaforme social anche sui contenuti condivisi, è stato il turno della schermaglia (inserita nella cornice della guerra commerciale) con la Cina sul tema della spopolante piattaforma Tik Tok, considerata problematica dal governo statunitense per le note ingerenze, o meglio, il vero e proprio soft control, che il governo cinese esercita sulle proprie imprese di punta. Secondo le accuse dell’esecutivo Trump, Tik Tok avrebbe potuto fornire al proprio Paese i dati personali degli utenti per dossieraggi utili a fini di propaganda e minacce, possibilità non smentita dagli stessi amministratori, i quali hanno dichiarato che, sebbene al momento non succeda, se il governo cinese richiedesse i dati loro non sarebbero nelle condizioni di rifiutare. Risultato? Ban totale dell’applicazione su suolo statunitense, tentativo di cooptazione (altrettanto controverso) affinché Tik Tok venga acquisita dall’americana Oracle e battaglia legale in corso.
Fino a oggi, gli unici colossi del web risparmiati dal mirino dell’amministrazione americana sono i motori di ricerca, Google in testa. Come riporta il New York Times, il Dipartimento di Giustizia ha infatti annunciato l’apertura di un procedimento contro la holding Alphabet, proprietaria del browser. L’accusa è di proteggere illegalmente un monopolio. Accusa decisamente fondata, in quanto Google controlla l’80% del mercato dei motori di ricerca grazie a contratti esclusivi monstre stipulati sia con Apple che con gli altri produttori di cellulari, al fine di rimanere il browser predefinito installato sui loro prodotti. Si tratta di un’inchiesta inedita, al quale il Dipartimento ha dichiarato che ci sarà un seguito, se altre piattaforme risulteranno problematiche ai fini della tutela della libera concorrenza.
Sebbene sia certamente un fatto positivo mettere gli occhi addosso allo strapotere dei giganti del web, anche in questo caso emerge l’aggressiva ambiguità degli Stati Uniti, i quali, da un lato, torchiano le aziende digitali in nome della concorrenza, del pluralismo e del libero mercato, mentre dall’altro minacciano sanzioni commerciali nei confronti di paesi UE formalmente alleati, quali Italia e Francia, rei di aver proposto in sede europea la sacrosanta introduzione della web tax. Così come minacciano fuoco e fiamme all’idea che la Cina profili i propri cittadini quando tale pratica, in maniera più o meno sotterranea, è portata avanti dallo stesso governo americano sotto il grande feticcio della sicurezza nazionale.
Fai quel che dico, ma non quel faccio, insomma. E c’è chi ancora li chiama leader del mondo libero.
Classe 1993, volevo fare il giornalista ma non ho la lingua abbastanza svelta.
Mi arrabatto tra servire pietanze, scrivere e leggere romanzi, consumare bottiglie di vino, crisi esistenziali, riflessioni filosofiche di cui non frega niente a nessuno e criptovalute.
Amo il paradosso, dunque non posso essere più felice di stare al mondo.