La mano dei partiti e dei colossi imprenditoriali sull’informazione italiana

In Italia il settore dell’informazione ha ricevuto, da sempre, profonde critiche: facilmente, infatti, troviamo periodi in cui almeno buona fetta della popolazione non sia stata a guardare questo modo in modo acritico e passivo verso ciò che gli veniva comunicato.

Diverse sono state le epurazioni nelle reti pubbliche, partendo da Dario Fo nel lontano 1962, arrivando Beppe Grillo con le sue battute contro il socialismo e allo spostamento di rete di Fabio Fazio, passando per l’editto berlusconiano che ha allontanato Luttazzi, Santoro e Biagi. Non dimentichiamo anche la stagione renziana, con Floris e Giannini poco graditi su RaiTre. L’influenza della politica nell’informazione ha visto il suo culmine appunto con l’imprenditore di Arcore che, già proprietario di una macchina da propaganda come Mediaset, nonché di vari quotidiani cartacei, con la vittoria di Forza Italia alle elezioni è riuscito a mettere le mani anche sulla Rai e, come avviene da sempre, a lottizzarla.

Da quel momento sono partite diverse campagne a favore di una «Rai libera dai partiti», a partire dallo stesso Grillo che, con il Movimento 5 stelle, aveva posto questo obiettivo come punto imprescindibile di programma di Governo. Anche Renzi, nel suo massimo di popolarità, diceva di voler combattere questo conflitto d’interessi decennale. Per brama di controllo o incapacità di scardinare determinati gruppi di potere, però, la liberazione non è ancora avvenuta: anche il Governo gialloverde, con la nomina di Foa, ha dato una direzione precisa alla nuova stagione Rai. Il nuovo governo giallorosso, più recentemente, ha visto la stessa logica di spartizione nei direttori delle reti e dei telegiornali: alla direzione di RaiTre c’è Franco Di Mare, scelto dai 5 stelle, mentre il direttore del Tg della stessa rete è Mario Orfeo, quota PD/IV.

Se il servizio pubblico se la passa male, in attesa di una legge che renda più indipendente la televisione pubblica, anche nel privato c’è, da non molto, un accentramento di potere. A fine aprile è stato perfezionato l’acquisto da parte di Exor, che ha a capo John Elkann, del Gruppo Editoriale Gedi, che comprende, tra gli altri, Repubblica, HuffPost, La Stampa, il Secolo XIX, L’Espresso, Limes, Le Scienze, National Geographic oltre a molti giornali locali (Il Tirreno, La Nuova Sardegna, Messaggero Veneto, ecc.) e a Radio Capital. De Benedetti, che ora ha rifondato l’Avanti!, anche se in forma ridotta rispetto al passato, ha ceduto quindi lo scettro di uno degli editori più importanti d’Italia.

La mutazione dello scenario è in atto da anni: nel 2016 la parte editoriale di Exor, che aveva la gestione de La Stampa e Il Secolo XIX, è confluita nel gruppo di De Benedetti. La stessa Exor che ora ha appunto rilevato il pacchetto completo, dando vita a un valzer di direttori piuttosto imbarazzante: Verdelli (Repubblica) è stato silurato tra le proteste dei dipendenti, che sono anche entrati in sciopero denunciando una nuova gestione troppo verticistica. Al suo posto Molinari, che al tempo era stato scelto da Elkann come direttore de La Stampa; al quotidiano torinese lo stesso Molinari è stato sotituito da Massimo Giannini, mentre per l’HuffPost è stato designato Mattia Feltri.

Il fatto che tutti questi quotidiani facciano parte della stessa famiglia mette una pulce nell’orecchio dei lettori: in questo modo viene garantità l’imparzialità? Il problema si è posto immediatamente, con la trattativa tra lo Stato e FCA (sempre di proprietà di Elkann) sulle garanzie statali per i prestiti alle aziende in questa emergenza Covid. Il peso contrattuale dato dai mezzi di informazione in possesso dell’editore non è banale e la direzione editoriale potrebbe portare a notizie a senso unico, a favore dell’azienda, dando all’opinione pubblica una visione distorta della realtà dei fatti. Per questo, la politica deve restare vigile e tenere sotto controllo queste situazioni quantomeno controverse.